sabato 21 febbraio 2009

cronache di un giovedì sera

I nostri occhi s’incontrano fuori del locale, quasi come si fossero dati appuntamento. Un milione di persone lì fuori non ci sfiorano nemmeno, non riescono neppure a farci girare la testa sul più bello; che poi è il solito spettacolo dei luoghi comuni, come a dire che anche stasera si vomita sul sigillato tombino della municipale.
E intanto mi concedi un’irriverente viaggio in fondo ai tuoi occhi, mentre cerchi invano di aggrapparli alla mattonella dove ti è toccato di posare i piedi. E lì ci trovi solo un rigo di pioggia che non riesce a decantare, mentre le tue scarpe già si muovono più in là, dove la folla scema e non c’è più rumore, dove le discussioni perdono di tonalità, dove le serate girano a ritroso, come fossero al cinematografo.
E proprio lì, vicino al muretto d’entrata del Lochness, le tue scarpe incontrano la pelle nera delle mie Dr. Martens, baciandole sulla punta. E mi dici “ciao”, con quell’imbarazzo pronunciato che mi autorizza ad innamorami dei tuoi occhi acqua e sapone. E poi ci baciamo sulle guance, come amici sopravvissuti di una sera qualunque, in quell’unica sera dove non siamo riusciti a comprendere nemmeno le regole del nostro rapporto, indecisi persino sui cucchiaini di zucchero da aggiungere al caffè. Ricordi?
E tutta questa indecisione, dopo un mese di latitanza, ce la trasciniamo dietro come carcerati in attesa di un verdetto. E la nostra condanna è tutto questo tempo trascorso altrove, smembrato dall’assenza.
E così precipito in fondo ai tuoi occhi, per un istante non avverto nemmeno il gelo tagliente di febbraio rimboccarmi il cappotto; e tutto il resto va in blocco, trascinato di prepotenza nel limbo delle cose rinviate a domani, in attesa di giudizio. Metto in aspettativa i pensieri quotidiani, non è con loro che condividerò la fine della sigaretta.
No...non è la loro sera questa: è la nostra.
E la nostra sera la passiamo a giocare ai dadi sul bancone di un pub debordante, lanciandoci gli sguardi come sampietrini in un giorno di festa; a distanza, per non tradire troppo in fretta la buona fede di chi ti tiene la mano.
E ci ripromettiamo il domani, mordendoci la pelle di nascosto, mentre ti dico che non ne posso più e che me ne devo andare.
Pago il conto, e spendo le ultime monete per assicurarti un posto in prima classe nello scompartimento sovraffollato del mio cuore.

giovedì 19 febbraio 2009

dopo giorni di pioggia

Ho strappato i tuoi baci alla notte, e li ho tenuti in ostaggio come carcerati ai lavori forzati. Ho morso le tue labbra e consumato il labbro inferiore come pneumatico dopo chilometri di corsa. E ti ho visto appiccicata contro il muro con il pigiama rosso, e ti ho visto sorridere riflessa sul cristallo verde dei miei occhi...
E ti ho amata, dopo giorni di pioggia.

mercoledì 18 febbraio 2009

certe notti le ferite sanguinano

E certe notti le ferite sanguinano, macchiano le lenzuola bianche di rosso porpora, coprono l’odore sterile del bucato.
Certe notti sono aghi infilzati sul petto, all’altezza del cuore. Pungono la carne, affondano nel tessuto connettivo infettandolo di insicurezze.
Certe notti le lacrime sbattono sul comodino come fossero minuti, sostituiscono la sveglia, ogni battere in levare incollato su pareti polverose di alberghi grigi della tangenziale.
Certe notti quel treno è tornato a trovarmi, puntuale, nell’attimo prima della chiusura delle porte. E solo in quelle notti ho avuto il coraggio di guardare il tuo viso sfumare lungo il marciapiede della stazione centrale.
Certe notti le ho trascorse scrivendo il tuo nome sulla condensa di vetri sporchi di camere d’albergo; quelle notti le ho passate in carcere, raschiando con le unghie i nostri nomi dalle intercapedini del cuore.
Certe notti le ho viste danzare sul mare di ferragosto, le ho respirate forte nella brezza del mattino e poi le ho gettate sulla spiaggia come fossero cicche di sigarette...E certe notti io le ho tradite: sotto un caldo piumone d’oca ho barattato un amore per pochi spiccioli di dignità.
Altre notti le ho banchettate, strappando la carne dall’osso e rosicchiando gli avanzi di una sera passata a rincorrerti lungo i banconi di un bar. Come un cane ho sputato l’osso e l’ho trattenuto come un gioco da tavolo accanto alla cuccia.
Certe notti le ho passate raggomitolato contro un plaid di lana per tamponare le lacrime di una storia finita male. E le ho pressate contro il muro come pastafrolla, e le ho contate come pecorelle su un prato di margherite. Quelle notti le ho passate conficcando i piedi nel fango, le ho vomitate nel water cercando di intercettare invano la presa dello sciacquone.
Certe notti le ho passate a viaggiare in lungo e in largo per il tuo corpo, con un biglietto di sola andata da spendere nel parco giochi della tua voluttà. E ho traslocato lungo i tuoi seni, e ho messo radici nella tua verginità.
Certe notti hanno i colori dell’oltremare e l’odore forte del legno marcio lasciato a stagionare in cantina.

E certe notti le ferite sanguinano, io posso sentirle gridare.

martedì 17 febbraio 2009

non capita tutti i giorni di andare al tappeto

Ciondoli sul ring, ti muovi leggero tra una ripresa e l’altra, non l’affronti subito, almeno non come sai fare tu. Rimandi l’attacco, sai che c’è tempo, e un buon combattente deve sapere aspettare il momento.
Lo vedi, è lì a pochi passi da te, la voglia di andargli incontro è più forte del tuo buonsenso, e lentamente, senza neanche accorgertene, scivoli oltre la guardia del nemico.
Parte il primo jeb, nemmeno lo vedi; va a segno diritto sul naso. Il tuo avversario è veloce, questo non l’avevi previsto, mentre ti tamponi il sangue con la pelle del guantone; se tornassi indietro ci ripenseresti, questo è certo. Non si conosce mai il proprio destino fino a quando non si ha una buona scusa per tornare indietro...e ormai è troppo tardi per abbandonare il ring. Ora sei in gioco, ora devi ballare, Cinderella man.
E allora aspetti che il tuo coraggio ti venga a trovare, come nell’età dell’oro delle corse incoscienti sui campi di erba medica, quando eri troppo piccolo per misurarne l’altezza... Attendi quell’archetipo di rabbia cieca che ti ha messo al mondo senza un perché. Attendi che ogni singolo pelo del corpo si drizzi sotto la scarica adrenalinica dell’attacco. Sei nato così, con la rabbia. Non sai perché, sai solo che non avresti potuto sopravvivere altrimenti.
Schivi il diretto, ma la tua guardia si apre, e arriva il montante, il colpo dell’angelo. La tua testa barcolla all’indietro, senti di poter andare al tappeto, senti che l’altro è più forte di te. Manca poco, non avresti mai voluto a che fare con tanta rabbia. Ogni singola parte del tuo corpo la senti gridare, non l’avresti mai detto.
Lui ha qualcosa che a te manca, fosse anche la sua giornata fortunata. Te ne accorgi dai tuoi colpi che non vanno a segno, dalla paura che lentamente intrappola prima la mente, e poi ogni singola fibra del tuo corpo. Ora hai paura, perché sai che nessuno potrà salvarti, a parte il suono metallico del gong.
Gli occhi addosso sono tanti spilli conficcati nella pelle, gli occhi addosso sono posti di blocco in un sabato senza via di fuga; il pubblico annusa il sangue che zampilla da ogni piccola feritoia del tuo corpo, sa bene che non resisterai troppo. Sottolinea ogni colpo con i più sconvenienti aggettivi, e sono questo genere di colpi che fanno più male.
Il pubblico vuole la vittima, il carnefice è solo un sadico sullo sfondo di un’altra giornata andata a farsi fottere. E’ il perdente che cura le ferite delle domeniche pomeriggio. Quindi ora puoi anche permetterti di andare al tappeto: solo per provare almeno una volta nella tua vita l’ebbrezza di avere tutti gli occhi addosso.
Guadagni tempo, muovi le gambe per non pensarci. Sai che il colpo arriverà, è solo questione di tempo. Stai solo cercando di raschiare gli ultimi brandelli di dignità dal fondo di un barile. Si tratta di difendere un posto, un qualunque posto all’interno dello spazio angusto di un sudicio territorio di provincia. Si tratta della tua misera nobiltà da uomo ben fatto, del tuo contratto borghese, dell’estratto conto su carta riciclata ogni domenica mattina. Si tratta delle tue ridicole aspettative da uomo per bene, infrante come mosche sul parabrezza di una Lancia Fulvia del ’69. Si tratta di quella cucitura sul guantone destro fin troppo usurata a ricordarti che c’hai dato dentro...e che le hai anche suonate. E poi, un attimo prime del gong, incrociare gli occhi del pubblico e avvertire la netta sensazione di sentirsi diversi.
Quarta ripresa: ci sono gli occhi da gestire, e un bel po’ di sangue da leccare. Quel liquido che sgorga adesso dall’arcata ti scivola via veloce lungo gli zigomi, mentre la garza cerca invano di tamponare ciò che conosce bene. Gettare la spugna: questo pensiero ti culla solo per un attimo, il tempo giusto per ricordarti che, comunque vada, devi andare fino in fondo.
Schivi il gancio sinistro alla tempia, mentre non vedi partire un montante alle costole che ti lascia con il fiato sospeso. Due diretti in pieno viso ti ricordano che nei prossimi giorni dovrai passare in otorinolaringoiatria, mentre un montante destro al fegato è peggio di quella sera passata a studiare l’ultima goccia di whiskey penzolare incerta dalla bottiglia di Long John.
Rumore sordo, cupo e violento.
Vai al tappeto, mentre le urla eccitate di una massa scomposta accompagnano il tuo knock-out. Doveva succedere prima o poi.
Guardi rasoterra le luci del quadrato annebbiare i pensieri, e pensi che, nonostante tutto, è bello squadrare il mondo da questa prospettiva. Ti ricorda quando eri bambino, di quando come i gatti ti addormentavi sulle mattonelle calde della casa dei nonni, di quando d’estate ti stendevi sul cemento rovente dell’oratorio dopo la partita pomeridiana, di quella volta che lei ti ha gridato: “Alzati, stronzo!”, e tu lì a ridere perché era buffissima, e nonostante tutto poi avete fatto l’amore, occhi negli occhi...e avete fatto la pace. E poi tutta quella voglia di non voler mai più tornare indietro, di tutta quella voglia di rotolarvi sui campi di grano e non voler rialzarvi mai più.
E ti ripeti che in fondo non è colpa tua, che ce l’hai messa tutta, che è inutile rialzarsi, e che domani, come tutti, anche tu avrai la tua rivincita.
Senti il calore del faro direzionale ustionare la superficie del tuo corpo, mentre poco più in là, la pellicola del pop corn si infila come una lama tra i molari dei presenti.
Ti rialzi, raccogli il paradenti...
Non capita tutti i giorni di andare al tappeto.

vai Eluana, corri più forte del ddL

E così la lasciamo adagiata su quel lettino, la nostra Eluana. "Nostra", perché la cosa è diventata ormai di dominio pubblico, non è vero? A questo popolo così civilizzato piace da morire farsi i fatti degli altri, si sa. La lasciamo lì, deformata, piena di ematomi, escoriazioni, lividi, piaghe da decubito, ecchimosi, bava dalla bocca e quant’altro, tanto mica siamo noi che dobbiamo guardarla, mi sbaglio? Non saremo di certo noi a cambiarle ogni ora il pannolone, a pulirle la merda di dosso, a raccogliere il piscio nel pappagallo, ha tamponare tutte le perdite di sangue, a drenarle il pus dalle piaghe...no, per carità, noi nemmeno ne eravamo a conoscenza; noi in 17 anni tutt’al più abbiamo potuto fare solo il concentrato di preghiere nell’ultimo mese. Tanto c’erano i coniugi Englaro che ci badavano.
Che strano popolo il nostro. Ha più coraggio Beppino Englaro che 56 milioni di italiani capaci solo di speculare sui dolori, le sofferenze e le vite private altrui.
Dell’altro, di chi sta peggio di noi, ovviamente.
Ammiro i giornalisti di LA7 che hanno scelto di non documentare più il caso come rispetto nei confronti del dramma della Famiglia Englaro, ammiro Napolitano che si è schierato contro la speculazione politica della vicenda. Credo che la nostra civiltà abbia dato un surplus di valore al concetto di vita, ricacciando il più lontano possibile il concetto di morte. Qualsiasi persona che abbia assistito alla lenta agonia di una persona cara, non può che restare in religioso silenzio di fronte all’immenso dramma e coraggio della famiglia Englaro. Il più delle volte basterebbe solo un po’ di buon senso.
Vai Eluana, corri più forte del ddL.

e poi la pioggia

E poi la pioggia…
Piove, piove sui tetti, sui vicoli imbrattati di gioia, di acrilico e di merda, piove sui panni sporchi, sulle frasi appiccicate ai portoni accostati…su quelli chiusi piove dentro casa. Piove su ogni interstizio dei san pietrini, piove che dio la manda, ma non piove mai abbastanza per chiudersi in casa e tappare le serrature.
Piove che tocca mettersi sotto i portici e vomitare piano le angosce al portaborse di turno. Piove senza lacrime, perché le lacrime si asciugano solo al sole, e la pioggia le confonde come confonde i pensieri. Piove, senza tregua, senza mezze misure.
Piove, ed è come dipingere di grigio Payne la Dama con l’ermellino di Leonardo. Piove perché il mondo vomita le sue angosce, piove perché gli amori finiscono, le storie finiscono, persino i negozi di pietre preziose falliscono. Piove sulle opportunità, sulle occasioni di crescita, di diversità...
Piove su troppe sere passate a giocare ai dadi al bancone di un pub.
Piove perché si aspetta un numero perfetto, o forse solo un suo dividendo. Piove perché non è matematica questo fuoco nello stomaco, questo correre fatto di consuetudini e gioie imprecise...e non c’è Malox che regga a questa emorragia dell’anima: è solo Amore che brucia.
Piove mentre il tergicristalli lava via lo sporco dai tuoi pensieri. E pensi che una donna ti ha cambiato la vita solo perché adesso puoi rischiare di passare le tue dita sul cruscotto e non avere paura di raccogliere solo un po’ di polvere.
Piove perché devo lavarmi…è questo il momento.
Piove.

lunedì 16 febbraio 2009

e m'informi che stai mettendo radici

E m’informi che stai finalmente mettendo radici...
Che ora sai come fare, che adesso affiora l’acqua giusta al tuo mulino.
M’informi che gli idraulici hanno cambiato le tubature, che i falegnami hanno ristrutturato i solai, che gli imbianchini hanno passato una mano di bianco su quelle pareti grigie.
Che finalmente hai smesso di morderti le unghie, che hai iniziato a considerare la possibilità di passare alla carne.
E mi comunichi che adesso filtra luce al neon dalle tapparelle, che le tue stanze profumano di gelsomino, e che la varecchina non consuma più le tue sudice giornate.
Mi offri ospitalità, invitandomi a calpestare il tuo tappeto nuovo, dimenticandoti che conosco bene l’indirizzo, ogni piccola diramazione della tangenziale, ogni singolo by-pass innestato con cura nella cavità delle tue arterie.
E mi offri una esosa liquidazione, sussurrandomi in silenzio che non puoi più aspettare.
M’informi che le tue giornate sottoscrivono cambiali, che ora le passi a studiare con cura le scadenze del tuo pancione; e che ora stai più attenta allo scirocco invernale, che per ogni foglia che cade hai nuovi semi da coltivare.
Mi dici che non la giri più la testa indietro, che adesso non hai più la cervicale, che l’Aulin l’hai terminato da un bel pezzo, e che hai relegato l’emicrania nel primo cassetto, tra i mal di testa dei giorni migliori. Che hai finalmente il ricettario giusto, che in tutto questo tempo hai persino imparato a cucinare...e intanto mischi lo zucchero con il sale, parlando della nostra storia come qualcosa di triviale.
Mi indichi la tua nuova strada, asfaltata di fresco come l’autostrada del sole; e mi ricordi che adesso non esistono più fermate, né caffè presi di corsa ai banconi sovraffollati di un anonimo autogrill. E poi simuli quella sicurezza che tanto ho odiato, cimentandoti nella pulizia delle stoviglie smaltate in acciaio temperato.
Mi ricordi la mia dipartita, e la sottolinei con il detersivo dei piatti sporchi acquistato pochi giorni prima nel discount sotto casa. E mi offri il canovaccio della cucina come prova del tuo impegno...
E dovrei vederti diversa, e io dovrei vederti migliore.
Mi comunichi i tuoi nuovi orari di lavoro, le tue scadenze incollate sul calendario, ogni piccola collocazione temporale. E apri l’agenda per nascondere il mio nome tra i numeri grigi dei giorni feriali, sfogliando i santi a ritroso come fossimo in processione.
E imbratti le lettere del mio nome con la luce opaca dell’evidenziatore.
E lasci a intendere che non farai più a botte con l’amore, che le tue notti non terminano più dove finiscono i tuoi sogni, che perfino i cani hanno smesso di pisciare il territorio, che hai comprato una sveglia nuova per assicurarti il buongiorno, e che adesso hai lenzuola nuove, fresche di bucato. E mi dici che vuoi lasciare una traccia, che ci tieni a continuare...
E intanto mi comunichi il tuo malumore, stizzando nervosamente la cenere nella tazzina del caffè.
M’informi che hai lasciato il nostro divano in cucina, che tra qualche giorno arriveranno i tarli a portarselo via, e che è solo questione di tempo. Che le persiane sono state riverniciate di fresco, che l’acrilico è impermeabile all’acqua e alla luce, e che i manovali hanno lasciato in veranda secchi sporchi di tempera e salsedine. Mi dici che adesso sorridi di più, e che per l’occasione hai comprato una nuova vestaglia in poliestere dove stringere ogni mattina il tuo buonumore.
E metti alla prova la mia tenerezza, parlando del nostro amore e del suo dolore ingenuo...quasi a voler dire che ho solcato i tuoi seni equipaggiato solo di ferraglia da dilettanti, con moschettoni incapaci di trattenerne il peso e picchetti dalla punta stondata. Alte probabilità di rottura...e buone chances di scivolare veloci lungo il pendio dei tuoi tremila metri di sensibilità.
E poi ridi, dio mio quanto sei bella quando ridi.
E mi regali confezioni di tisane, prodotti fitoterapici e parole crociate lasciate a ingiallire in bagno sul davanzale del termosifone, il tuo esoso erario e la tua ben retribuita stanchezza, il fondo del Corriere letto di corsa nel bar sotto casa, la rivisitata opinione degli intellettuali di sinistra, ogni abusato luogo comune, la grigia mantovana della tua camera da letto, le ultime novità in materia di giardinaggio e fiori appassiti per troppo Amore, i menù consumati nei ristoranti dei sabato sera, tutti i locali del centro storico e gli orari di apertura, i promettenti attori delle ultime fiction, la nuova collezione dei bicchieri di Nutella, il tuo nuovo Rinascimento e gli affreschi della tua nuova alcova, l’ordine strategico dei libri in salotto, l’ultima collocazione del tuo contratto sociale, il cinema d’essai e le tue ultime considerazioni sulla ripresa a campo largo della cinematografia francese, l’aggiornamento sugli orari della ZTL, tutte le pagine del tuo carnet, le notti bianche e il British tea della prima colazione, le scarpe lucide e la sciarpa nuova di lana bianca, il Nuovo Ricettario della Cucina Italiana e le dosi appropriate del tuo benestare, decorate con la maionese lungo la porcellana del tuo fantastico guazzetto in salsa rosa.
E m’informi che stai finalmente mettendo radici...
mentre spolveri le ultime molliche di pane dalla tovaglia imbandita del nostro incontro.


PS: Scritto in una sera di malaffare sulle note di “Ce l’ho con l’amore” dei Tetes de bois.

assalti frontali al ventricolo sinistro

Assalti frontali al ventricolo sinistro, in questa notte di resa lungo le trincee del mio territorio emozionale. Il passato torna a trovarmi, spolvera le sue membra flaccide di fondotinta blu.
Lo guardo danzare sui miei pensieri, nell’insolvenza di un conto malato, trascurato e non chiuso per mancanza di tempo. Questa notte è un bagaglio che fa rumore lungo i sudici corridoi di una stazione di provincia, sudore freddo e cambiali da firmare al chiaro di luna. Questa notte è un faro direzionale puntato dritto sul mio petto, un padrone senza il cane, chirurgia pediatrica al settimo mese di vita.
E poi quella volta che ti ho strappato la luce dagli occhi e l’ho poggiata sul comodino di casa in quella notte di blackout. E quei morsi sulla carne livida, sin troppo abusata sotto la passione delle lenzuola bianche. E le mosche a banchettare sui nostri corpi sudati, e le mosche a rifocillarsi sulla superficie dei nostri 40 gradi. In quelle notti fradice, lasciate ad asciugare al sole di un dicembre, come panni sporchi...
E tentare di fermarlo il nostro incontro, sulle panchine del parco sottocasa, sperando in un fortuito incontro, per anni, e poi anni... E quegli anni, adagiati sulle doghe, sfioravano appena la vernice del nostro nome, senza scalfirla. E intanto le colazioni incalzavano, al ritmo eccitato di ogni nuovo giorno. E intanto gli anni passavano, nascosti tra i pacchi di pasta in credenza, affogati nel caffè e latte di ogni freddo mattino. E nei locali sub affittati dei nostri sentimenti, trovare appena un po’ di zucchero da leccare, miele da spalmare sul perimetro di 4 fette biscottate. Imparziale misura del nostro Amore.
E poi la sciarpa dove nascondere la mia emicrania, e il cappotto che stringeva ogni mio giorno di pioggia, la luce al neon che velava i miei occhi di acqua marina. E il collirio ogni mattina alle 6 per nascondere il mio malumore, e il brivido da rincorrere sul marciapiede dei miei giorni.
E poi tutti gli alibi che riuscivo a dipingere sulla superficie della mia dignità, ogni difesa che riuscivo a procurarmi, ogni momento di negazione alle mie stupide recriminazioni. La strada sterrata che collega la mente al cuore, ogni piccolo sassolino schiacciato con cura contro la pianta del piede. E l'euforia marcata sugli zigomi, gli umori circoscritti dal lattice, incollati da sempre sulla superficie della tua indifferenza.
E di te, non rimangono che macchie, aloni di passione sul divano vintage dei ricordi.
Che mai laverò via.

domenica 15 febbraio 2009

un incontro

E poi finalmente la incontro.
Così senza pensarci, senza accorgermene. Dicono che funzioni così quando c'è di mezzo l'Amore.
Iniziamo a parlare, distrattamente. Cosa fai, se ti piace questo posto di merda, se anche tu hai le idee confuse come tutte le donne che mi capita d'incontrare. E invece no, tu hai le idee chiarissime. Per esempio hai una irresistibile voglia di conoscermi, di andare fino in fondo...
C'è un tavolino tra di noi, eppure continuiamo a parlare tutta la sera incuranti della comitiva, dei bicchieri colmi di vodka-lemon e delle troppe mani che a intervalli regolari interrompono il nostro campo d'azione.
Eppure continuiamo a guardarci, a svelare la nostra intimità, appena sussurrata. Me ne accorgo quando vedo la mia immagine riflessa nei suoi occhi lucidi come lo specchio.
E in tutto questo tempo che sembra trascorrere altrove, c'è anche una storia che dura ormai da tanto tempo, si direbbe troppo; ma soprattutto in tutto questo tempo, ci siamo noi incuranti di tutto il resto che ci stiamo innamorando senza nemmeno rendercene conto. Troppo tardi per tornare indietro, troppo presto per ricominciare.
Poco dopo ci troviamo faccia a faccia in una delle tante piazze d'Italia, insieme al branco, ma troppo distanti perdio. E allora, ormai sazio degli sguardi, mi muovo sulla destra, aggiro la compagnia sorprendendola alle spalle e vado a sedermi ad appena 40 centimetri dalle sue labbra. Iniziamo a parlare, e come poco prima, tutto il resto scompare, disintegrato, impalpabile; semplicemente non ci riguarda, almeno per questa notte. E' come mettersi i tappi nelle orecchie. E' come scalare le pareti del cuore...
E a questo punto della serata penso che ci siano buonissime probabilità che io possa, nel giro di una settimana, innamorarmi perdutamente di lei. Ma non ce l'ho una settimana, è questo il punto...domani parto, cazzo. E allora ci salutiamo con l'amaro in bocca, mentre lascio le mie labbra incollate sulle sue guancie.
Ci rivedremo più avanti, magari di Giovedì; me lo ripeto ad ogni centimetro che inesorabilmente inizia a separarmi da lei.
E nell'attesa ci sono da gestire i giorni del ritorno, fiumi d'inchiostro e pensieri che rimbombano tra le pareti di casa.
E nell'attesa ci sono anche tutti i silenzi di questo mondo.
E intanto nell'attesa...
le lacrime solcano il cuore come fossero aerei da ricognizione.