martedì 28 aprile 2009

Gaeta

E si che poi ci sei andata a Gaeta a farti smontare anche quell’ultimo sorriso, quell’angolo di bocca dove si nasconde l’ultimo refuso della tua malcelata inquietudine.
Lontano da tutti, lontano da te stessa. Lontano anni luce da tutto ciò che ti somiglia.
E si che poi hai ripreso in mano tutti i ferri del mestiere e li hai disposti come cannoncini rossi a difendere un territorio che ti spetta di diritto, come fossimo giocatori occasionali al tavolo del nostro imperdibile Risiko. E hai detto basta a tutte quelle ridicole romanticherie e a tutti quei sterili svaghi da tavolo, tagliandomi fuori dal gioco, ricacciandomi dietro la più lontana delle linee nemiche.
E hai continuato a lavorare sodo perfezionando con cura il tuo assetto da guerra, spolverando le armi necessarie per compiere i tuoi innocui attacchi da principiante...
La difesa ti resta: questo è tutto ciò che io posso concederti.
E hai preferito rimettere assieme quei ferri rugginosi piuttosto che comprarne di nuovi, magari a prezzo scontato, magari anche al mercato dell’usato. Perché in ogni caso tu sai dove mettere le mani, perché all’occorrenza tu sai anche come farli girare. L’hai sempre saputo fare.
Bel mestiere il tuo: pulire la scocca, ingrassare il motore, truccare il contachilometri con la dedizione del meccanico.
Ordinata collocazione dei tuoi sentimenti.

E hai continuato a convincerti che non può esistere un altro uomo nella storia di una donna, che con quel paio di occhi azzurri ci potresti fare la brutta copia di un film già visto, “che poi magari rimango fregata e buonanotte”, hai lasciato intendere. E hai continuato a non fidarti di me, e me lo hai comunicato con una rinnovata, palese, lucida assenza.
Ecchisenefrega, mi sono detto. Peggio per te.
Perché un Uomo è anche tutto ciò che non hai mai nemmeno immaginato, fosse l’ombrello per proteggerti dai giorni di pioggia, fosse il grimaldello per aprire le porte dei tuoi giorni migliori, fosse anche il parafulmine di tutte le tue frustrazioni, fossero anche tutte quelle carezze che una madre ormai delega al futuro di una figlia...

Per amarti senza amare prima me, vorrei essere tua madre.

E hai continuato a convincerti del contrario: “Meglio così”, continuavi a ripeterti.
E si che poi l’hai dovuta pagare cara tutta questa manodopera: in silenzio hai cosparso il cuscino con il sale dei tuoi giorni sprecati, e affondato la testa nel più profondo angolo del letto.
Mi hai detto “aspettami” poco prima di salire sul treno. Io l’ho fatto. E per ogni giorno che ci ha visto lontani ho girato lo sguardo verso il capolinea e strappato quella partenza al mio cuore, per non dargli ancora l’alibi di piangersi addosso senza un motivo.
E si che poi ti ho anche amata, pensa che scemo...
E per la noia di aspettarti, ho steso la nostra storia ad asciugare come panni sporchi sulla linea del tramonto.

lunedì 13 aprile 2009

cronache di un lunedì sera

Dal casello di Roma nord al grande raccordo anulare sono un bel po’ di chilometri. Mi butto sulla destra e mi immetto nel grande traffico della capitale, direzione Fiumicino. Mentre le uscite scorrono regolari alla mia destra ripasso a rallentatore le immagini dell’ultima volta che ho dovuto precipitarmi in clinica: era sempre notte inoltrata, era sempre la stessa Roma, splendida, ineccepibile. Forse, quella della notte, è la luce giusta per rapportarsi ai sentimenti. Forse, quella della notte, è la luce giusta per raccontarsi le favole e per avere ancora il coraggio di crederci. E forse, quella della notte, è la luce giusta per raccontare anche questa, di favola.

Roma, Lunedì 6 Aprile 2009. Sala d’aspetto della “Sacra Famiglia” in Via dei Gracchi, zona Prati. Ore 02.42

Aspetto, parlando con mia madre delle sensazioni che una madre prova un attimo prima di mettere al mondo un figlio. Mi racconta di quel pomeriggio di 34 anni fa, quando, nell’ansia del travaglio, non sapeva ancora che saremmo stati in due ad uscire. Ride, mi guarda con quella dolcezza che non ho mai avuto il coraggio di cogliere a pieno. Mi guarda come per dirmi: “ricordati che la vita oggi sta qui per rinnovare la tua bellezza”.
Io fui l’ultimo a salutare il nuovo mondo: mi presi ancora un quarto d’ora, temporeggiavo. E a quanto pare non fu semplice tirarmi fuori da lì. Tenevo duro, non ne volevo sapere.

Sono passato a prenderla a casa, non stava più nella pelle.
Le chiavi nella mano tentennavano, si muoveva tra il salotto e il bagno senza concedersi un attimo di tregua. Voleva correre da sua figlia, sapeva che lei in quel momento la stava chiamando. Come una leonessa ferita a distanza guardava di mal’affare tutto ciò che le capitava attorno. E il telefono lungo il viaggio che trillava ogni minuto: “Ma dove sei? Ma quanto ti manca? L’hai messa la benzina?”.
Poi siamo usciti di corsa, avventurandoci sulle strade deserte della capitale.
Mi parla della Roma degli anni 60, dei suoi anni all’università, di quando mio padre sfidò l’occupazione studentesca del ’68, andando a prenderla fuori dai cancelli. Anche se non me l’ha mai detto, mi piace pensare che il loro amore sia decollato proprio lì, in via De Lollis, a due passi dalla casa dello studente, a due passi dalle barricate.
E ci accendiamo una sigaretta per toglierci dall’imbarazzo. E facciamo finta di cambiare discorso.
Poi torna ad essere nervosa: “Piazzale degli Eroi! Gira qui a destra!”. E poi ancora: “Sbrigati...non così, fai piano! Attento!”. Un parto è sempre una battaglia dall’esito incerto. Un parto è una barchetta che non ha ancora completato il suo giro di boa.

Chissà cosa passa per la testa ad una madre in questi momenti: mi piace pensare che sono solo affari da donne, pezzi di eternità che solo loro sanno nascondere bene in quel giaciglio di tenerezza che sui libri di anatomia chiamano “utero”. Forse custodiscono un segreto che noi uomini semplicemente non possiamo corrispondere.
Si aspetta, nel silenzio ovattato del reparto.

Poi la porta si apre, di scatto. Massimiliano ci guarda con quei suoi occhi tremuli che stanno per vomitare lacrime, e in un attimo di lucidità riesce a dire a mia madre che può raggiungere la figlia, in sala travaglio.
Si chiama proprio così l’anticamera della vita: “Sala travaglio”. Curioso.
Rimango solo, prendo il taccuino e comincio a scrivere, non so fare altro. Mio fratello torna su con tre caffè presi di corsa al piano terra. Ci guardiamo, nella solitudine del momento. Mi porge il caffè, ce ne restiamo lì a guardare fissi la porta a vetri della sala d’aspetto, sorseggiando piano. Non un parola. Non possiamo fare altro. Oggi siamo soli. Oggi siamo Figli minori.

A tratti si sentono vagiti, forse ci siamo. Esco sul terrazzo e mi accendo una sigaretta. Sono nervoso. Roma è splendida di notte, così permeata di un silenzio antico e imperiale. A due passi Piazzale Clodio, poco più in là svetta luminosa la cupola di San Pietro.
Mi stringo forte alle maniglie del terrazzo, quasi avessi paura di perderla tutta questa vita che tra non molto mi darà il buongiorno.
Noto sulla destra un portavasi sommerso di cicche: mi piace pensare che ogni mozzicone di sigaretta abbia salutato ad ogni giorno una nuova vita. Mi piace pensare che a tutte quelle cicche corrispondano chilometri di padri in attesa, un attimo prima della chiamata. Mi piace pensare che un giorno sommersa tra tutta quella polvere, ci sarà anche la mia, di cicca.

Massimiliano attende, passeggia sempre più irrequieto lungo gli androni del reparto; ogni tanto apre la porta, ci guarda con gli occhi persi, torna indietro a macinare chilometri.
Tra poco sarà padre, per la seconda volta. Chissà cosa passa per la testa a un uomo in questi momenti, chissà a cosa pensa...

Ore 03.25

Benvenuto Edoardo. Benvenuto il tuo coraggio di esserci, a questo mondo. Benvenuta la tua caparbietà di arrivare primo là dove milioni di esistenze hanno fallito.
Vieni al mondo nella camera 306 mentre le pareti della clinica tremano e le mamme con i figli serrati in grembo invadono le corsie. “Tranquille” dico, per tranquillizzare me stesso.
Dove sei mio dio, in questi momenti dove un bimbo viene al mondo e a pochi chilometri di distanza una mamma piange un figlio seppellito sotto metri di polvere? Dove sei dio mio, sei dalla parte della vita o dalla parte della morte? Dimmelo ti prego, perché stanotte tra le coperte ho sentito troppo freddo, perché stanotte ho pianto il fratello che non ho mai conosciuto, perché stanotte le lacrime scavano sugli zigomi come fossero puntelli, e perché stanotte non riesco più a staccare le membra da questa posizione fetale.
E spiegami se puoi, se c’è bisogno di un terremoto al giorno per ricordarmi che sono ancora fatto di anima e corpo. Per ricordarmi che so ancora menzionare il prossimo, e che la fraternità come vedi, ha sempre un prezzo proporzionale al dolore dell’altro, di chi sta peggio di noi. E che c’hai messo al mondo per ricordarci che solo nel dolore sappiamo rammentarci di quanto siamo soli.
Spiegami perché le parole scorrono a fiumi in queste ore silenziose, perché tutto il mondo si mobilita sempre e solo nel frastuono della lamiera saltata per aria, perché ogni ora batte forte solo sui container dei terremotati, in questa stucchevole melassa di solidarietà.
Spiegami i tuoi progetti futuri, Signore, e spiegali soprattutto a chi da domani avrà solo lettere da scriverti per ogni giorno che gli resta ancora da vivere. Rivelagli l’indirizzo dei tuoi pensieri, il centro raccolta della tua corrispondenza, ovunque essa sia.
Rispondi, almeno per questa volta. Rispondi a tutte quelle madri in attesa.
Sabbia o Cemento signore? Spiegami se c’è differenza nell’edificare con l’Odio o con l’Amore. Spiegami i trucchi delle infrastrutture, tutto lo splendore delle bare bianche adagiate come petali di margherite in questo giorno d’estate. Spiegami perché sono costretto a piangere sulle tute catarifrangenti della protezione civile, perché devo sentirmi parte intima di tanta distruzione. Spiegami se è colpa nostra, Signore, spiegaci dove abbiamo sbagliato questa volta, e se c’è qualcosa che non abbiamo ancora compreso. Spiegami se puoi tutto questo dolore, se c’è una logica, e se possibile insegnaci le regole, una volta per tutte.
Spiegami se c’è differenza tra la vita e la sua indifferenza nel lasciarla andare.
Spiegamelo, Signore.
Perché oggi Edoardo è nato, e un domani dovrò spiegargli come sono andate le cose. Perché da come si guarda attorno, dalla fatica che prova a spalancare gli occhi sul mondo, dalla discrezione che ci comunicano le sue prime ore di vita, pare si senta un sopravvissuto.
E allora spiegami anche questo Signore...
Spiegami perché la vita vuole sempre l'ultima parola.

Nec Recisa Recedit.