E’ tardi, gli imbianchini stanno per arrivare e gli impresari dell’ENEL hanno già fatto sapere che passeranno a giorni a contare gli scatti. Nuovi inquilini premono impazienti sul civico 24, mentre la giunta comunale ha inaugurato proprio ieri il nuovo piano di assetto stradale. Scendo di corsa le scalette di Via della Luna fino in fondo al muricciolo di mattoncini rossi, lo stesso lastrone di argilla rovente dove riprendevamo fiato dopo la scarpinata verso il centro, ricordi? Mi fermo proprio di fronte al portone, riprendo fiato, indietreggio. Mi guardo attorno come un ladro, guadagno tempo. Ho paura che qualcuno mi riconosca, ho paura che qualcuno venga a dirmi che non è ancora il momento, che qualche muratore mi passi nella mano la cazzuola e che mi indichi la crepa. Ho paura del restauro dei sentimenti, della betoniera incrostata che ingoia ogni pezzetto di vita che oramai puzza di vecchio. Ho solo paura di guardare le cose e di vederle crollare a pezzi.
E’ tardi, ma ho ancora due chiavi nelle tasche. Chiavi in metallo leggero, fatte fresare dodici anni prima nella ferramenta sotto casa in quell’afosa estate del ‘97. Tu le hai già consegnate, probabilmente liquidate con una formale stretta di mano, sbattute con diffidenza sul tavolo dei nostri zelanti affittuari. Forse già tentennano nelle tasche di qualche altro inquilino o forse sono rimaste incollate sul tavolo dell’ambulatorio, schiacciate sotto le carte logore della corrispondenza. Già me le vedo tra le mani dei nuovi affittuari infilarsi cigolose nella serratura, rifiutare l’incastro, incepparsi. Tutta questa inquietudine dovrei buttarla nel tombino comunale e lasciarla sedimentare assieme alla merda, penso; e invece sono ancora qui che doveva succedere prima o poi, che così va la vita e che bisogna imparare a chiudere un sacco di porte prima di comprendere il gioco.
Eppure me lo hanno insegnano sin da piccolo che bisogna stare attenti all’uomo nero, quell’uomo che non dice mai una parola e che se ti viene a trovare nel migliore dei giorni vuol dire che sei davvero fregato sul serio. Anche se non mi hanno mai incoraggiato, anche se col tempo ho imparato a non pensarci troppo, io ci penso spesso alla morte: lo faccio di nascosto, lontano da tutti e con la discrezione del gatto. Ho imparato presto a scivolare tra le cose, lo faccio così bene che quando passo alzo sempre un sacco di polvere.
Eppure questo pomeriggio di giugno non somiglia affatto a una fine, non c’è la camera buia e non ci sono nemmeno le nuvole che fanno l’umore gonfio; c’è invece un sole generoso che non ha la pretesa né tantomeno l’ambizione di scaldarmi di nuovo. Di nuovo era tanti anni prima quando al sole ci passavo tutti i pomeriggi e sull’erba del Tempietto ci s’innamorava in fretta.
Hai lasciato il nastro rosso della laurea ancora attaccato sulla porta e il dopobarba poggiato sulla mensola del bagno. Hai lasciato anche un po’ di polvere sul comodino e tracce del tuo passaggio in dispensa, c’ho passato un dito sopra e m’è rimasto attaccato il sudicio dell’ultima settimana. E che dire del mazzo di carte napoletane poggiate sul marmo del camino, come un conato mi sono tornate di colpo tutte le sere trascorse a passarci il carico con l’ammicco del giocatore consumato, manco fossimo ai tavolini sverniciati del Gran Bar. Di tutti quei fine settimana passati a contarci i punti, mi viene in mente quel dentro-fuori della finale al barretto di Sant’Anna, avevi tra le mani una Napoli a bastoni e gli occhi spalancati come quelli del Signor Quindicipalle. Eravamo complici in una partita a tressette, delatori di una mano a scopone, compagni in una sveltina a briscola. Non hai mai mollato una presa, non l’hai mai saputo fare: lasciare la partita, abbandonare il tavolo. Eri il contabile dei miei giorni migliori.
Le mie misure sono 12x12: dodici anni di convivenza coatta in una camera di dodici metri quadri di spazio. La mia vita è ancora tutta lì, aggrappata con le unghie su quattro pareti di forato radioattivo. Pareti fatiscenti, con le foto e le puntine multicolore che reggono ancora gli anni per miracolo.
Non è una fine questa, non le somiglia affatto. E’ piuttosto uno di quei giorni dove davanti allo specchio scambi il sapone con il detersivo per i piatti, dove il tappo del dentifricio s’incastra bene nel bocchettone del lavandino, dove non hai la minima idea di come hai parcheggiato l’auto la sera prima o di dove hai lasciato le sigarette, l’accendino, gli occhiali da sole o le chiavi di casa. E’ uno di quei giorni dove cammini in centro senza pensare alle scadenze di fine mese, uno di quei giorni in cui ti va di sorridere senza il bisogno di doverti dimostrare per forza qualcosa. Devo sbaraccare casa e non so come fare. Un giorno normale insomma, un giorno che ti cammina di fianco e che ti fa appena il solletico.
Hai lasciato l’ombrello a due passi dalla porta e non credevo proprio che potessi dimenticarti anche di lui. Me lo sono portato a casa che sembravo il Chisciotte di ritorno dai mulini a vento, lo stringevo forte sotto l’avambraccio e lo sai, le persone mi guardavano così strano che ho dovuto tagliare per le vie minori, schivare gli sguardi, passare oltre. Sarà stato per via del sole, o sarà stato perché le persone guardano con diffidenza tutto ciò che non le somiglia, ché tutto ciò che con la vita non pareggia i conti troppo spesso ci fa a cazzotti. Sta di fatto che ho bisticciato con un coglione che se la rideva a due passi dalle scale mobili, rotto il naso e spaccato la nocca del mignolo, ecco tutto. Io credo che le persone non sono abituate a tenersele strette, le cose. Io ho raccolto l’ombrello e imboccato di corsa il sottopassaggio. Passato oltre, ecco.
Hai lasciato le pentole a screpolarsi in credenza, tappi di sughero e bottiglie stappate a prendere d’aceto vicino ai fornelli. E sa di tappo tutto questo disordine, capodanno in anticipo o ultimo giorno di scuola. E che ci dicano pure che eravamo di troppo, che non avevamo più sapone da spargere per casa: se i nuovi inquilini avranno prodotti migliori, che ce la insegnino loro la metodica. E che ci bacino pure il culo.
Penso che hai sbagliato a staccare il contatore e a segnare gli scatti, ho consultato la bolletta e i conti non tornano proprio. Un po’ di cenere sul davanzale della cucina e già mi sembra di vedere che te la fumi fino in fondo la tua ultima cicca, che la respiri forte nei polmoni e la pressi giù per gli alveoli fino a ostruire le vene. Due minuti, appena due minuti prima di dire addio a quei dodici anni di vita condensata.
Appena due muniti prima.
Scemo è inutile che ti guardi attorno con quegli occhi lucidi di gatto, guarda che ho dovuto andarmene, HO DOVUTO, capito? Quindi non metterti a frignare lì sulla porta che non era ancora il momento e che adesso il Cinastik non è più lo stesso senza le mie pinte di rossa poggiate sul bancone, OK? Perché se ti guardi attorno lo vedi da te che anche senza di noi le cose restano comunque appiccicate al muro. Nemmeno l’amore è immune da certe imperfezioni, figuriamoci noi. Sai, a volte c’ho pensato, ho pensato a quanto è dura tenersela stretta, la polvere: quando sposti le cose hai sempre il sospetto di trovarci qualcosa di meglio che un batuffolo di capelli. E invece questo siamo, e allora accontentati di passarci pure lo straccio: almeno avrai il sollievo di tirare via lo sporco.
E’ così che vanno le cose, semplicemente cambiano residenza, numero civico, a volte padrone. E se non c’hai pensato in tutto questo tempo, beh, allora sono fatti tuoi. Io non posso farci più nulla perché così va la vita, perché così va la vita, perché così va la vita…
Ti odio, mentre piango e rido come uno scemo, io ti amo. Il mondo sorride perché il mondo là fuori vince sempre. Qui dentro il mondo non c’entra, qui dentro siamo come i cavalli che non lo sanno mai quand’è finita la corsa. E se poi i cavalli hanno vinto. O se magari hanno perso. Per sempre.
Almeno dimmi dov’è il riscatto, l’indennità di disoccupazione, quel pezzo di filigrana che s’incassa alla fine dei giochi. Dov’è la liquidazione? Quando le cose finiscono c’è sempre una parete bianca su cui vomitare quel po’ d’insolvenza, non riesco a capire. E mi domando dov’è che ho sbagliato, qual è stato il giorno e l’ora che non ho compreso, l’attimo di storia che mi ha visto perdente.
Giro per casa e mi appoggio al comodino, se ci frugo più dentro posso solo aspirare la polvere dell’Intercity. Eppure ci dev’essere da qualche parte un calzino, una roba sporca, qualcosa d’annusare. Ci dev’essere un pezzo di vita da qualche parte, c’è stata dappertutto e figuriamoci adesso che non ci sei. E allora corro, corro lungo il perimetro di 50 metri quadri di mattonelle grigie, corro rovistando in ogni angolo di spazio, corro sul riverbero dei passi che fracassano nella testa come fossero stecchini. Cerco un alibi alla mia solitudine, magari un carcere.
Chiudo la porta dietro di me, getto un ultimo sguardo sulle scale di marmo maculato del terzo piano e m’incammino, in discesa. Sono fuori, tra raggi di sole che bruciano gli occhi e scavano il nero delle tapparelle. La luce ora è così forte che non riesco nemmeno a contare i passi. Ma dammi solo un attimo di tempo e vedrai, monto sul primo treno e in meno di quattro ore sono già da te. Corro e ti abbraccio come non ho mai fatto, vengo a dirti che tutta questa distanza in fin dei conti non fa poi tutto il silenzio che resta. Vedrai che non è cambiato nulla, ché mica le cose cambiano così dall’oggi al domani. Poi mi dirai che sono troppo emotivo e proverai di nuovo a cacciarmi le lacrime dagli occhi. E proverai a convincermi che è sempre indispensabile perdersi. Che questa è la vita e che nonostante gli anni ha sempre bisogno di sentire il fischio del treno. Ma per favore non fare come tutti gli altri che così va la vita.
Non dirmelo mai che così va la vita.