Ci sono molti modi per fare l’amore, se lo faccio da dietro ti sento più forte. Da dietro non sento la pressione dei tuoi occhi che mi respingono, da dietro il mondo è più semplice se io non lo vedo. Vuoi provare, sei brava e te la cavi con poco, a te basta muovere il bacino per sentire il prurito. Ci sono molti modi per sentirsi importanti, tra questi modi di gestire le cose il migliore è farle venire. Atterro sulla tua pancia ed è solo un attimo che vola incosciente tra le pareti della tua stanza; ma è anche un attimo che mi piega sudato - un attimo dopo - sul lato comodo del letto. I piedi sbattono forte perché le ali di farfalla sono ormai a terra. Ci sono molti modi di addormentarsi sul petto, il migliore è cacciare la testa nell’incavo della scapola.
- Ti è piaciuto?
- Si mi è piaciuto…
- A cosa pensi?
- A domani.
Domani ci svegliamo col primo rumore di treno e tu sei già in piedi che aspetti il lavoro. Mi prepari il caffè e me lo porti nel letto, di mattina presto poi faccio fatica ad accettare le cose. Il tuo modo di vedermi è qualcosa che non mi lascia perplesso - dio quanto lo vorrei - piuttosto un modo di pensare l’amore e sentirselo comodo. Le attenzioni che mi serbi sono un passato che mi rigiro ancora e poi ancora nel letto; forse un cliché, non saprei dire. Mi baci e sento tutto il sapore della notte passata, e se mi rimbocco le coperte mi torna come un rigurgito il tuo umore sudato. Tra la notte e il buongiorno ci sono molti modi di vedere le cose, un mondo diverso di attraversare le strisce, l’affitto, le bollette, le persone, il traffico, i semafori, la spesa. Tornerò dal lavoro e farò la fila alla cassa, comprerò due bottiglie e torneremo nel letto. Fino alla fine dei giorni.
- A cosa pensi?
- A niente.
Niente è il soffitto che ci vomita il calcestruzzo sugli occhi. Niente è l’errore che ci attende poco più in là. Niente sono le merende di quando ero bambino e avevo tanti occhi addosso con cui giocare. Niente è vederli passare, sposarsi, invecchiare, dissolversi. Niente sono i capelli di mia madre che corrono come carta zucchero sui carri a carnevale, le sue cartilagini, la pelle tirata che fa a botte con i suoi occhi celesti. Niente sono le figurine Panini scambiate di rapina sotto il banco, le partite a calcetto, le mani enormi del maestro Felli. Niente è il giorno che me ne sono andato di casa, niente il giorno della mia laurea, niente la tesi di dottorato e tutte le mattine che mi sono sentito più veloce e più in fretta degli altri. Niente sono i tuoi occhi verdi che mi aspettano e che già sanno che prima o poi ritorno.
Ci sono molti modi per tornarsene a casa: uno di questi è infilarsi in un letto.
Avanti e indietro per cercare di impegnare i pensieri in qualche reazione chimica che mi porti il cervello il più possibile lontano. Qui da me il mondo non somiglia affatto a mio nipote che a quattro anni si attacca ancora al collo e fa l'altalena quando è il momento dei congedi. Qui da me il mondo arriva tutto di botto e la mattina ti uccide col suo alito pesante. Gli dico che torno presto, un attimo solo per riempire la ciotola dei gatti e poi via, tutta una tirata fino a Perugia Villaggio di Santa Livia civico 101. 240 chilometri di una strada che imparo a conoscere di fretta. Lui fa spallucce, inarca il labbrino e si mette a frignare Ben10. Tanto lo sa che poi torno, uno zio come il mio è meglio di tutti i Ben10 della notte, lui pensa.
E poi via da solo, lungo la Roma – Civitavecchia statale91. Non c'è nemmeno un angolo di luce a cui affidare la distrazione dei miei occhi grigi, il cielo è una massa opaca e i suoi contorni sono chilometri che sfilano oltre l'alone dello specchietto retrovisore. La camera del posto guida ha i colori pallidi della pellicola viola, sta per entrare l'estate e io non vedo che fango ai bordi della carreggiata. All'orizzonte colori neutri, lo smalto azzurro della scocca è da poco passato in ruggine. Sono le 19.45 e ho guadagnato il cavalcavia che dalla statale per Cesena s'innesta sulla E45. Mi accendo una sigaretta e faccio finta di niente. Piove da un mese, la dinamica dei tergicristalli mi annoia, sorpasso un autotreno targato Brescia.
Dentro la mia stanza suona leave the bourbon on the shelf, nella mia stanza c'è acqua salata che cola verticale. E allora ci provo a leccare il tutto, ma mi rendo conto che solo l'uomo ragno può arrampicarsi sui palazzi e scalare le montagne. E allora penso a mio nipote che a quattro anni non c'ha paura di sfidare la strega secca, lui che ad ogni botta di vita la sconfiggerà sempre e comunque. Lui che c'ha lo zio più forte del mondo, pensa.
Tra poco sarà il mio compleanno e non ho ancora deciso chi invitare alla festa. Come ogni anno ci saranno i clown con il naso giallo e le flappers con i reggicalze e tutto il resto. Ci pensavo oggi mentre fissavo le tette della cassiera che se le era scollate apposta.
- Cosa fai, guardi? - chiede la quarantenne in evidente crisi coniugale.
- Si, mi piacciono le tue tette.
S'impaccia con le buste, il resto non le torna.
- Fatti una sega.
- Sicuro.
E questo è quanto. Venite a casa mia, la festa sta per cominciare.
Oggi un amico mi ha telefonato con la scusa del week-end e c'ha infilato di traverso i cazzi miei. Voleva sapere, l'amico, voleva strapparmi di bocca un dolore che non ho mai trovato il coraggio di condividere. Perché il dolore è un affare troppo lungo da raccontare, non sai mai da dove comincia e quel che è peggio non si sa mai dove andrà a parare. Se il dolore non ti riguarda, tutto quest'affare diventa un protocollo buono solo a spalmarci sopra la coscienza; se lo racconti, il dolore, non c'è mai nessuno davvero buono a farci un'obiezione. E a me non piacciono le cose che non fanno opposizione.
Ad esempio parliamo della morte e diciamo pure che era stata prevista e programmata da tempo. Ma le persone - l'amico - ti tendono la mano e sembrano dirti che i miracoli esistono per davvero anche se non ce ne siamo mai accorti. Non sono solo un mucchio di fregnacce, funzionano bene così come le cure omeopatiche. L'amico non se ne rende conto ma è davvero patetico con tutti i suoi rimandi anodini freschi di retorica da bancone del pesce fresco. Datti una regolata bello, perché la vita non me la devi insegnare e non me la devi insegnare adesso. La vita è un ammasso di cellule che si moltiplicano e che quando vogliono finirla lì non ti spediscono nemmeno la raccomandata. Io al mio amico vorrei dirgli che è finita da un bel pezzo e che sono appena trascorsi quindici minuti di luoghi comuni. Piuttosto butta giù il telefono che la vita per te è là fuori e certe cose sono più grandi dei tuoi pensieri da pesce, ecco cosa vorrei dire al mio amico e a quel cazzo di mondo comodo e morboso. E invece dico solo che è un tappo alle vie biliari, un'operazione da risolversi in un nulla.
Il dolore degli altri è scontato, non fa mai troppo rumore. Il dolore degli altri deborda la parte più abietta del genere umano, funge da zerbino per la propria coscienza. Perché la pietà è una cosa disgustosa, un'elemosina di tutti e cinque i sensi messi assieme. Dio che strazio le persone buone, quelli con gli avverbi protocollati, le pacche sulle spalle e tutto lo schifo del loro contagio. Il bisogno di sapere che c'è sempre chi sta messo peggio, il bisogno di una comparazione. E' inutile che continui a bussare, il dolore è un chiavistello in ferro battuto che non si può diroccare. Piuttosto, basterebbe continuare ad annaffiare il giardino per una comprensione totale.
Post Scriptum
Poi arrivarono finalmente, frementi di adrenalina e bava che gli colava dalla bocca. Arrivarono con le loro mani sudate e le loro strette mortali. Arrivarono tutti, puntuali, con i loro baci appiccicosi e le loro facce così incapaci di simulare una sofferenza che in ogni caso non li riguardava. Timbravano il cartellino e scappavano via come topi in cerca di una fogna.
Il citofono continua a trillare, mescolato al calcinaccio dei muratori. Sprofondi la testa più a fondo e serri le tempie contro i lembi del cuscino fradicio di sudore. I muratori vengono chiamati per la pausa pranzo, mollano scalpelli e piccozze e si avviano verso il container giallo del capomastro. Il trillo risuona più forte, rimbalza come una pallina da ping-pong lungo le pareti oscure della camera da letto e tu che non puoi scappare perché il giorno ti ha già trovato. Ma non è il citofono, è il campanello che ha i toni acuti del cellulare; e allora pensi alla padrona di casa e alla scadenza dell’affitto di fine mese. Apri la porta ma non le somiglia affatto.
Non ero spaventato, e nemmeno sorpreso. Sapevo che era Lei, me lo ero immaginato così intensamente che avevo percorso al suo fianco tutta la strada che va da casa di Maria sino al civico 24 di Via della Luna. Avevo persino sentito la pressione del dito sul campanello di casa un attimo prima del trillo. Non avevo nemmeno sperato, avevo soltanto atteso ciò che era inevitabile. Restiamo come due perfetti estranei che non conoscono le parole di circostanza e la lascio lì, sull’uscio della porta. Mi avvio lentamente verso la camera e mi abbandono sul letto, facendo finta di niente: cazzi miei.
Non una parola.
Il chiaro scuro della camera da letto si prende cura delle sue forme, lascia ogni particolare finito, modellato; disegna nitidamente i contorni del suo petto e proietta sulle pareti lo spettacolo delle sue ombre cinesi. E’ in quei contorni che adesso trovo i miei limiti, più in là ci sono solo coperte da stringere a morsi in troppe notti filtrate al lume dei ricordi.
La studio, nella penombra della stanza. Non c’è innocenza nei suoi occhi: al contrario, un ombra di perversione che tiene in tensione il mio corpo e ne amplifica irrazionalmente i sensi. Tira il busto più indietro e appoggia i gomiti sul tavolo della scrivania; la linea dei seni si tratteggia veloce sotto il vestito e poco più in là, poco più sotto la trama di acetato grigio, la punta dei capezzoli dilata leggermente la seta: sembra prendersi gioco della sua sicurezza. Mi vuole, la sua immobilità non lascia spazio a nessuna alternativa e non ammette vie di fuga. Devo essere suo, ora, adesso.
Me ne sto lì, al calore rassicurante del mio letto, spalle al muro. E ad ogni battito del tempo che passa sulle lancette in ferro battuto di un orologio appeso in qualche parte della casa, sento gli umori incalzare come cavi elettrici nel basso ventre. L’aria è satura di quell’odore acre, lo stesso odore che ho lasciato poco prima sul davanzale di quell’appartamento all’ultimo piano.
Tiro un sospiro di sollievo e allungo la mano verso il comodino in cerca del pacchetto di Fortuna. Mentre armeggio nell’intento di scovare un accendino sepolto da qualche parte sotto un cumulo di libri, lattine di birra, confezioni di ansiolitici e pacchetti vuoti di sigarette, mi ricordo della confezione di preservativi nascosta sui fondali del secondo cassetto. Il package da 6 è terminato da un bel pezzo, l’ultimo preservativo l’ho scartato un mese prima per simulare una scopata con una cassiera che me l’aveva fatto venire duro.
- Non l’accendere...
- Perché?
- Perché non c’entra nulla, ora.
Mi sfilo via la sigaretta e lei ci appoggia sopra le labbra senza premere troppo. Poi le apre leggermente ed è un lembo di umidità che si muove a destra e sinistra e che s’incunea negli angoli della bocca. Esce fuori e scende fino al collo, risale veloce verso gli zigomi e poi si ferma sull’occhio: restiamo per un attimo riflessi e poi me lo bacia, il mio mondo. I suoi baci entrano ed escono e sospirano forte ad ogni affondo, umettano la cavità dell’orecchio e si fermano solo per mancanza di spazi. Provo a partecipare facendo scivolare la mano, ma lei me la blocca.
- Fermo, non ti muovere... - mi dice, risistemandola vicino alla spalliera.
Scende più giù, mi sbottona la camicia fino all’attaccatura dei calzoni. Non c’è più nemmeno un centimetro da scoprire, lei continua così perché vuole lasciarsi il vuoto alle spalle: che si prendano solo le briciole, le troie.
Abbiamo scopato come i gatti, facendo le fusa e mischiato l’umore con la saliva. Ricoperto la terra dopo i bisogni, nascosto agli altri quel po' d’intimità.
- Aspetta...
- Cosa?
- Togliti le scarpe.
Ci siamo scopati il tessuto cardiaco, disinfettato le ferite con le garze sterili del nostro pronto soccorso. Le mani non mollavano la presa, le mani erano incollate sulla resina e la resina era la pelle sudata. L’odore del sesso sfondava le coperte e sotto le coperte c’era la cadenza regolare di ogni piacere esigente.
- Fai piano... così... ora ti sento.
A tratti freddo. Freddo sui piedi scoperti, freddo su ogni pezzetto di carne scivolato incautamente oltre l’estremità delle coperte.
E poi le mie labbra sui suoi seni e le sue labbra sul mio petto, lungo le gambe, lungo quelle finite strisce di territorio da conquistare a fatica. Waterloo o piuttosto Fort Alamo, non ci siamo dati una tregua. Ho atteso l’offensiva barricato in difesa, trovato un varco sul fianco sinistro e scivolato rapido sul litorale della sua schiena.
Ti ho presa da dietro, come un vigliacco.
Poi il congedo dalla muscolatura liscia, gli umori circoscritti dal lattice, la tregua narcotizzata dei sensi come fosse la fine. Abbiamo sostato sul bordo del letto e ci è parso di scorgere il precipizio. E siamo rimasti muti, come i pesci a contemplare una profondità.
E ci siamo arresi, appena in tempo.
Rimango immobile, fisso le mattonelle ruvide della camera da letto. Strisce orizzontali filtrano dalle tapparelle in acciaio coibentato. Lascio cadere le palpebre sul cuscino e aspetto fiducioso la fine. La follia arriverà, prima o poi, a sorprenderci nudi.
Oggi mi hai mostrato l’anulare col cerchio dorato. L’hai fatto apposta, ed eri anche abbastanza sincera quando mi hai detto: “sono felice di rivederti”. Poi hai posato la mano sinistra sul banco del bar e l’hai tenuta tesa, come a sottolinearne lo stato e l’amarezza. Faccio finta di niente, certe cose non mi toccano dai tempi delle superiori e ho smesso da un bel pezzo con la competizione. Mi chiudo in difesa e limito i danni della tua imboscata: è la tua rivincita e te la concedo volentieri. Dicono che dall'anulare sinistro parta una vena che finisce direttamente al cuore. La credenza risale ai romani, che erano convinti che in questa vena scorressero i sentimenti. Non avendo l’oro a disposizione fasciavano l'anulare sinistro col ferro, di modo che lo sposo, per sempre, avrebbe potuto garantirsi la fedeltà della propria moglie. A cosa serve, a cosa è servito, a cosa mi servirà domani quest’ultimo atto di fede. Forse mi aiuterà a giocare meglio le carte, a difendere lo scudo spaziale e a intercettare i missili nucleari. Ci penso e ci ripenso, deve esserci un porto, un cesso, un luogo sperduto fuori o dentro la mente, un anfratto di mondo dove vomitarti per sempre. Eppure non c’è niente che somigli a quei pezzetti di pasta imbevuti di acido e vino rosso, non c’è frammento a terra né grumi di polvere da spazzare per bene. Niente, non c’è più niente di noi.
Nemmeno il gusto di raccoglierne i pezzi. Ma invece c’è tutto. C’è un pensiero che si sporca nel catino del bucato o piuttosto nel caffè di ogni mattina, nelle ore di punta. C’è un pensiero ogni volta che mi guardo attorno e mi ritrovo solo alla cassa 4 del supermercato. A scuola i professori c’insegnavano l’amore ma noi lo facevamo meglio nel doposcuola. Non ci sfiorava il traffico e non ci sfioravano i giorni che se ne volavano via come bolle di sapone. Le lacrime erano un liquido che cercava la sua via di fuga, e le lacrime erano una barchetta che armeggiava sempre il suo porto. E questo è l’abstract di questa storia, calzino spaiato nel cestello dei panni sporchi. Il resto stinge nella centrifuga e implora solerte il perdono.
Mi domandi se la febbre è passata, cose del genere. Fai un sorriso che non m’aspetto e che si applica come gomma americana sugli zigomi scavati. Abbasso lo sguardo perché non me lo merito questo tuo modo di startene al mondo, questo accenno di vita puramente formale, retorico. Ma tu m’incalzi di nuovo come se fossi io il malato, la persona speculare a cui elemosinare quel po’ di tempo che resta. Piuttosto parliamo di noi, di come ci siamo incontrati. Raccontami il momento più bello, parlami di Sally, la canticchiavi sempre e non me la ricordo già più. Come spiegare la tua dipartita, come spiegarla a me e poi a tutti quelli che verranno quando tu non sarai già più in tempo. Come prepararmi per quel trillo di telefono, rispondere che si, io l’avevo compreso, io c’ero ma non l’ho potuto fermare, quel pezzetto di mondo. Ho la vista annebbiata, un bel po’ di alcool che sembra non sortire il suo effetto, e un blister di antibiotici da gestire in fondo allo stomaco. Sei qui, a nemmeno dieci centimetri dalle mie mani, e non trovo la forza di allungare un mignolo. Il futuro si arresta, il passato se la ride, le aspettative giacciono moribonde su di un lettino d’ospedale che sembra più luminoso di tutti gli altri. Ma è solo il tramonto che ci sbatte di contro, sono i miei occhi che non la smettono di fissare l’intercapedine anodizzata delle finestre della stanza 14, sono io che non voglio capirci più nulla di tutto questo mondo assurdo di affrontare le cose e vedersele ogni volta sfumare, morire d’inedia. Ora la musica è davvero forte, ce l’ho nelle orecchie perché tu ora la stai fischiettando, e vorrei poterti scandire ogni singola parola perché a ripeterla nel frastuono dei parenti si perde tutta quella retorica che a me tanto necessita. Mi concedo un altro giro di sotto, solo un altro giro al bancone per rinfrancare il coraggio e mischiare le carte. Ti lascio ancora per dieci minuti, lo so che non l’ho mai fatto, che da quando è successo mi sento come una barchetta a cui hanno negato il largo; ma da quando lo faccio mi sento anche un po’ meglio. Forse è così che funziona, forse le cose le capisci meglio quando ci bevi sopra. Le persone vanno e vengono sul vano 14 e io la parte del numeretto non me la sento proprio. Non con te. Non oggi. Scendo le scale fino al piano terra e mi viene la paura di aver dimenticato qualcosa più indietro, la colazione a letto, le molliche sull’inguine o magari tutto il resto, che ne so. Perché la colazione a letto c’entra con l’amore che non si racconta, e perché è così che troppo spesso le lascio andare, le cose: di mattina presto il più delle volte, con una tazzina di caffè in una mano e la sigaretta nell’altra. In mutande. Sorseggio la mia storia, ne assaporo il retrogusto, me la passo sulla lingua e tra i denti, la guardo scendere velocemente giù per le scale, voltarsi un attimo e infine buttarsi in strada ingoiata dal traffico. Per sempre. E’ così che vanno le mie, di cose. Mi fermo solo un attimo per le sigarette, due battute col barista, qualche considerazione sulla finalissima di Champions, poche parole gettate sul bancone come fossero spiccioli di mancia. E poi il vodka lemon che brucia nell’esofago e di colpo tutto il passato che affiora trasparente quanto il cristallo limpido del bicchiere vuoto. Ma è solo un rapido, ingenuo, colpetto di tosse. E allora corro, corro più forte dei blocchi della ZTL, corro più forte di ogni mia insicurezza. Guardo con la coda dell’occhio tutte le uscite della E45 sfilare via come fossero birilli, guardo la vita appiccicata come una zanzara sullo specchietto retrovisore della mia Clio 1.2 metallizzata come il cielo. E chissenefrega se stasera uso il clacson come un macete da cultori della strada, stasera perdo troppo e mi godo la vita annaspare dall’altra parte della carreggiata, almeno quello. Parcheggio in centro, faccio spalle larghe sui divieti di sosta. Mi guardo bene dalle tute bianche della municipale, stasera ho solo voglia di giocare a mosca ceca e mettermi a riparo dal mondo. Quand’ero piccolo il mondo stava tutto nell’oscurità di un nascondiglio e non c’era bisogno di andarselo a cercare perché era il mondo che ci pensava. Anche quando per strada non c’era nessuno e la strada sembrava un cemento liquido che scorreva lento sulle chiatte grigie della tangenziale, era il mondo e i suoi sacchi d’immondizia che ti venivano a trovare. E poi gatti neri e camole da pastura a banchettarci sopra. E quando il mondo ti trovava finiva tutto con una conta fino a dieci, e a quel punto ero io che facevo il mondo e tutto il resto che si andava a nascondere sempre troppo lontano. Adesso non sono più mondo e non sono più niente, ho solo paura che tra non molto mi verrai a stanare e che mi troverai impotente, inetto, su questa stupida panchina d’aprile. Attendo la tua comparsa, gli incisivi rugano i polpastrelli, la paura che sai pazientemente trasmettermi. Apprendi il codice della mia insicurezza, tu sai come smettere il gioco. Faccio le scale due a due, guardo la mia faccia riflessa sui piani opachi del dipartimento. Il tramonto è bellissimo, i raggi bucano le vetrate e si spalmano sulle piastrelle bianche azzurre del policlinico. Stasera ho smesso il vestito migliore e indossato il buonumore fresco di bucato. La notte mi sorride, le luci del reparto rallegrano i miei passi, le donne ricambiano fiduciose il mio sguardo. - Ci vediamo in centro davanti all’arco. - Ok. Davanti all’arco, domani. E’ così che ci siamo incontrati, ora ricordo.
Dai che ce la facciamo con le fragole e con i brividi che se ne volano via. La follia è un aeroplano che barcolla al decollo, e vivere non è mai stato semplice se non c’eri più tu.