Il citofono continua a trillare, mescolato al calcinaccio dei muratori. Sprofondi la testa più a fondo e serri le tempie contro i lembi del cuscino fradicio di sudore. I muratori vengono chiamati per la pausa pranzo, mollano scalpelli e piccozze e si avviano verso il container giallo del capomastro. Il trillo risuona più forte, rimbalza come una pallina da ping-pong lungo le pareti oscure della camera da letto e tu che non puoi scappare perché il giorno ti ha già trovato. Ma non è il citofono, è il campanello che ha i toni acuti del cellulare; e allora pensi alla padrona di casa e alla scadenza dell’affitto di fine mese. Apri la porta ma non le somiglia affatto.
Non ero spaventato, e nemmeno sorpreso. Sapevo che era Lei, me lo ero immaginato così intensamente che avevo percorso al suo fianco tutta la strada che va da casa di Maria sino al civico 24 di Via della Luna. Avevo persino sentito la pressione del dito sul campanello di casa un attimo prima del trillo. Non avevo nemmeno sperato, avevo soltanto atteso ciò che era inevitabile. Restiamo come due perfetti estranei che non conoscono le parole di circostanza e la lascio lì, sull’uscio della porta. Mi avvio lentamente verso la camera e mi abbandono sul letto, facendo finta di niente: cazzi miei.
Non una parola.
Il chiaro scuro della camera da letto si prende cura delle sue forme, lascia ogni particolare finito, modellato; disegna nitidamente i contorni del suo petto e proietta sulle pareti lo spettacolo delle sue ombre cinesi. E’ in quei contorni che adesso trovo i miei limiti, più in là ci sono solo coperte da stringere a morsi in troppe notti filtrate al lume dei ricordi.
La studio, nella penombra della stanza. Non c’è innocenza nei suoi occhi: al contrario, un ombra di perversione che tiene in tensione il mio corpo e ne amplifica irrazionalmente i sensi. Tira il busto più indietro e appoggia i gomiti sul tavolo della scrivania; la linea dei seni si tratteggia veloce sotto il vestito e poco più in là, poco più sotto la trama di acetato grigio, la punta dei capezzoli dilata leggermente la seta: sembra prendersi gioco della sua sicurezza. Mi vuole, la sua immobilità non lascia spazio a nessuna alternativa e non ammette vie di fuga. Devo essere suo, ora, adesso.
Me ne sto lì, al calore rassicurante del mio letto, spalle al muro. E ad ogni battito del tempo che passa sulle lancette in ferro battuto di un orologio appeso in qualche parte della casa, sento gli umori incalzare come cavi elettrici nel basso ventre. L’aria è satura di quell’odore acre, lo stesso odore che ho lasciato poco prima sul davanzale di quell’appartamento all’ultimo piano.
Tiro un sospiro di sollievo e allungo la mano verso il comodino in cerca del pacchetto di Fortuna. Mentre armeggio nell’intento di scovare un accendino sepolto da qualche parte sotto un cumulo di libri, lattine di birra, confezioni di ansiolitici e pacchetti vuoti di sigarette, mi ricordo della confezione di preservativi nascosta sui fondali del secondo cassetto. Il package da 6 è terminato da un bel pezzo, l’ultimo preservativo l’ho scartato un mese prima per simulare una scopata con una cassiera che me l’aveva fatto venire duro.
- Non l’accendere...
- Perché?
- Perché non c’entra nulla, ora.
Mi sfilo via la sigaretta e lei ci appoggia sopra le labbra senza premere troppo. Poi le apre leggermente ed è un lembo di umidità che si muove a destra e sinistra e che s’incunea negli angoli della bocca. Esce fuori e scende fino al collo, risale veloce verso gli zigomi e poi si ferma sull’occhio: restiamo per un attimo riflessi e poi me lo bacia, il mio mondo. I suoi baci entrano ed escono e sospirano forte ad ogni affondo, umettano la cavità dell’orecchio e si fermano solo per mancanza di spazi. Provo a partecipare facendo scivolare la mano, ma lei me la blocca.
- Fermo, non ti muovere... - mi dice, risistemandola vicino alla spalliera.
Scende più giù, mi sbottona la camicia fino all’attaccatura dei calzoni. Non c’è più nemmeno un centimetro da scoprire, lei continua così perché vuole lasciarsi il vuoto alle spalle: che si prendano solo le briciole, le troie.
Abbiamo scopato come i gatti, facendo le fusa e mischiato l’umore con la saliva. Ricoperto la terra dopo i bisogni, nascosto agli altri quel po' d’intimità.
- Aspetta...
- Cosa?
- Togliti le scarpe.
Ci siamo scopati il tessuto cardiaco, disinfettato le ferite con le garze sterili del nostro pronto soccorso. Le mani non mollavano la presa, le mani erano incollate sulla resina e la resina era la pelle sudata. L’odore del sesso sfondava le coperte e sotto le coperte c’era la cadenza regolare di ogni piacere esigente.
- Fai piano... così... ora ti sento.
A tratti freddo. Freddo sui piedi scoperti, freddo su ogni pezzetto di carne scivolato incautamente oltre l’estremità delle coperte.
E poi le mie labbra sui suoi seni e le sue labbra sul mio petto, lungo le gambe, lungo quelle finite strisce di territorio da conquistare a fatica. Waterloo o piuttosto Fort Alamo, non ci siamo dati una tregua. Ho atteso l’offensiva barricato in difesa, trovato un varco sul fianco sinistro e scivolato rapido sul litorale della sua schiena.
Ti ho presa da dietro, come un vigliacco.
Ti ho presa da dietro, come un vigliacco.
Poi il congedo dalla muscolatura liscia, gli umori circoscritti dal lattice, la tregua narcotizzata dei sensi come fosse la fine. Abbiamo sostato sul bordo del letto e ci è parso di scorgere il precipizio. E siamo rimasti muti, come i pesci a contemplare una profondità.
E ci siamo arresi, appena in tempo.
Rimango immobile, fisso le mattonelle ruvide della camera da letto. Strisce orizzontali filtrano dalle tapparelle in acciaio coibentato. Lascio cadere le palpebre sul cuscino e aspetto fiducioso la fine. La follia arriverà, prima o poi, a sorprenderci nudi.
- Stringimi...
1 commento:
D'un fiato. Con l'amaro in bocca di quel mattino dopo, dove soli ci si sveglia senza il tutto della notte prima. E non si sa se applaudire di nuovo per chiedere un bis o serbare il ricordo e uscire dal teatro. Ma quando si è attori, si spera sempre in un ritorno, magari migliore perchè si è capito cosa gli altri vogliono, quell'atto che non è andato un granchè, quella battuta che sarebbe potuta essere pronunciata diversamente.
E questa volta non avremmo acceso una sigaretta e le nostre mani si sarebbero ancorate da sole alla spalliera.
Poi il sipario cala la prima volta. E ci voltiamo appena a notare il drappo verde che si muove lentamente fra noi e gli altri. Sorridiamo leggermente. Il tempo è trascorso. Da attori torniamo noi stessi una volta di più, con un ricordo ancora.
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