martedì 30 giugno 2009

incipit

- E’ finita.
- Sei sicura?
- Credo di si… anzi SI, è finita.
- Pensaci…
- C’ho già pensato abbastanza. E’ finita, davvero, io non ti amo più.
- C’è un altro?
- No, non c’è nessuno.
- Stronzate. C’è sempre qualche imboscato quando le storie finiscono.
- Beh, questa volta no, ti sbagli.
- Stronzate…
Lentamente, e senza neanche accorgercene, scivoliamo lungo il corridoio dell’ingresso. Sembra un traguardo rincorso per anni, quella porta sullo sfondo a due passi da noi.
Siamo irresistibilmente attratti da una maniglia d’ottone ossidato e dal suo pallido velo di corrosione. Ma non abbiamo più aggressivi chimici da buttargli contro né trattamenti superficiali da tentare. Siamo chiatte che hanno imbarcato troppo acqua dal cielo, ecco cosa siamo. Paranze che stanno affondando, nonostante la quiete.
Tra poco te ne andrai e io ritornerò lentamente a fare i conti con me stesso dopo nove anni di mano nella mano. Non so come sarà, e che sapore avrà il caffè preso in mutande di mattina presto. So solo che in questo preciso momento, in un'anonima domenica d’inizio novembre, non riesco a non pensare a quella maniglia. Voglio girarla, far scattare il meccanismo, sentire gli ingranaggi muoversi: far scattare la molla.
La incalzo, costringola a indietreggiare. Avverte la mia impazienza e simula un ultimo maldestro atto di resistenza. Allungo la mano verso quell’odioso pomello di ottone luccicante, lei me la blocca:
- Non lo so come me ne vado da qui…
Lo dice mentre le trema la voce, lo dice mentre i suoi occhi si perdono tra le fessure delle mattonelle. Un ultimo atto di fede, un’ultima indecisione di fronte al crollo di una costruzione che ci ostinavamo a chiamare amore.
- Non preoccuparti. Ci rivedremo più avanti amore mio... più avanti.
La molla scatta, la porta si apre.
E’ finita, ora lo so.

giovedì 25 giugno 2009

provaci

Vieni a costruire la mia gioia, monta i ponteggi e compra la vernice giusta da stendere sulle pareti dei ventricoli. Lo smalto per renderli impermeabili e la luce migliore da filtrare allo scuro delle tapparelle. Prova a sostare nei miei giorni con l’ingombro della perfezione e parcheggia in centro senza problemi. Puoi asciugarti il sudore con il canovaccio della cucina o attendere scaltra la salsedine dei giorni. Ma prova a costruire la mia gioia senza il bisogno di dimostrarle per forza qualcosa...
Provaci.

martedì 23 giugno 2009

ingenua

Le mutandine di pizzo erano fradice di ormoni. Io odio il pizzo, sa di vecchio. Niente a che vedere con reggicalze in PVC o reggiseni in microfibra lucida e compagnia bella.
Mi guardavi, ti guardavo, mi guardavi, ti guardavo: ce la passavamo ogni sera la palla, con la rassicurante distanza degli sconosciuti. Nessuna incursione, né contropiedi o calci di rigore. C’era un’altra donna tra di noi e c’erano tante, troppe insicurezze da mettere a posto.
Poi una sera hai sbattuto forte il bicchiere al bancone e hai deciso che era arrivato finalmente il tempo delle consultazioni. Il tuo di tempo, perché detto tra noi io nemmeno me le ricordavo più tutte quelle sere trascorse a consumare in silenzio le tue perfette forme da prima donna di quartiere. Io che adesso me ne stavo spaparanzato sul marciapiede del Cinastik, a godermi la carovana degli affetti arrancare nel giro-vita del sabato sera.
E così è andata che hai ordinato un doppio Manhattan senza ghiaccio né ciliegina rossa. E deve proprio aver messo un bel po’ di disordine nei tuoi pensieri tutto quell’alcool tracannato di colpo davanti agli occhi increduli del barista; così tanto da costringerti ad alzarti e barcollare non poco prima di intercettare quei venti metri di corridoio che separano il bancone dall’uscita, schivare gli avventori e i fumatori di sigaretta, i commercianti di rose e quelli di accendini rossi, individuarmi tra la folla e senza proferire parola piegarti verso la mia bocca e ficcarmi la lingua giù per l’esofago fino a spolverare le pareti delle mucose. Quasi fosse un colluttorio.
Non c’è che dire, hai messo in campo il tuo attacco migliore. Baci, lingua e mani dappertutto. E ti ho lasciata fare, assecondando il gioco e chiudendomi in difesa, mentre certa dei miei brividi migliori, bivaccavi lungo il mio corpo con la cadenza calcolata di chi è abituato a prendersele, le cose.
Freno l’impazienza delle tue mani che tentano di inoltrarsi furtivamente dentro la patta, ti afferro la testa e gli impedisco di scendere oltre la striscia pubica dell’ombelico. Gemi e godi, mentre lasci in giro la tua bava come per segnare un territorio che arrivati a questo punto ti appartiene di diritto. Cerco di trascinarti di forza nel vicolo di fronte, allo scuro da occhi indiscreti che oramai sostano a gruppi a pochi metri di distanza. Posso sentire i loro occhi scivolare lungo la pelle, incunearsi in ogni angolo di umidità, partecipare.

Certe sere sono magiche, partono bene e te ne accorgi subito. Hanno la congiunzione astrale. Riga tutto dritto, stai bene, ogni piccola parte di te sta bene, ogni singolo organo funziona a dovere, ogni misera cellula del tuo apparato sta lì a ricordarti che questa, è finalmente la tua sera. E tu lo puoi sentire. Non te lo spieghi il perché di tanta abbondanza tutta assieme, ti sembra solo che la vita funzioni a stolti, che elargisca pacchetti di discreta e ipocrita attenzione a giorni alterni e in maniera del tutto casuale. Quel che è peggio è che credi alla congiunzione astrale così come credi all’oroscopo; e ti capita di ripensarci per giorni, mesi, anni, e nel frattempo dai tutto il merito del tuo successo alla nuova marca di gel effetto bagnato, a quel profumo di seconda marca che a questo punto non era proprio tutta la miseria che costava, o alle tre settimane di palestra che hanno convinto perfino lo specchio dei tuoi più voluminosi pettorali.
Bene, questa è inequivocabilmente la mia serata. E l’oroscopo letto stamattina di sfuggita nel bar sotto casa, c’ha preso che è una meraviglia: “Non ti curar di lei: così facendo concluderai la tua giornata pienamente soddisfatto”.
Io, palesemente scelto e migliore tra tanti. Io, l’eletto tra moltitudini di segaioli.
E per di più da una figa non c’è male.

La situazione mi piace e non poco, la verità. Conduco la partita, detto le regole del gioco. Posso decidere del suo corpo, abusare se voglio, oppure lasciarla lì sulla strada in preda ai suoi stessi umori. Potrei condannarla al mio perpetuo ricordo se solo volessi, se solo sapessi, se solo potessi distaccarmi dalla presa del suo corpo e lasciarla lì sospesa nel limbo del come sarebbe potuto essere. In fin dei conti io ho già vinto: tutta la pratica materiale che segue, è solo roba da dilettanti.
Riesco a fatica a trascinarla pochi passi più in là, in un vicoletto isolato dove a intervalli regolari qualche avventore fa la sua comparsa con la vescica che implora la libera uscita.
Ci appartiamo finalmente.
La lascio fare, la lascio leccare, consumare, sperimentare. La lascio transitare su e giù per il mio corpo, privata oramai di ogni inibizione. Afferro le sue gambe e le sollevo i piedi da terra; le appoggio la schiena contro il muro e spingo forte il mio sesso dentro di lei, contro di lei, mentre soffoco i suoi gemiti con le dita della mano destra che le spingo forte in fondo alla gola. Le morde, le succhia, le sbava. E passa la lingua sul palmo della mano come fosse carta zucchero. Ruvida, come lingua di gatto.
Lecca il mio odore, implora ospitalità, mi costringe a capitolare.
- Non ti fermare, ti prego... – mi dice, poco prima dei congedi. Mi vuole dentro, vuole che sia tutto per lei. Magari per sempre.
E faccio appena in tempo a mollare la presa e a soffocarla lì, tutta questa serata che già sembra non appartenermi più, mentre lei ora se ne scivola leggera lungo il muro di mattoncini rossi aggrappandosi forte alla parete. Lo chiamano “attimo di lucidità” il momento in cui stai per decidere della tua vita; o più prosaicamente, “culo”.
Asciugo la mia virilità con i kleenex della sua borsa saltati fuori come preservativi al momento giusto. E mentre pratico il massaggio emolliente a due passi dal suo restauro fisico e morale, inchiodo con cura tavole di abete scuro all’uscio del mio cuore: non si sa mai con certe donne.

Mi chiedi ancora due ore. Ancora due ore del mio tempo da dedicare alla brace del tuo corpo. Declino, inventando di fretta che c’è una persona che dorme beata tra le coperte della mia camera doppia. - Un uomo, - ho sottolineato. E una camera doppia.
- Facciamo piano... - mi sussurri, mentre affondi la lingua nelle cavità dell’orecchio. E continui a elemosinare il mio tempo, mentre mi confessi senza mezzi termini di desiderare un uomo che sappia cosa significhi scopare una donna.
- Forse non sono all’altezza, - rilancio dopo un attimo di indecisione.
- Lo sei - hai ribadito convinta dei tuoi sensi.
E hai chiuso lì la discussione.

Non mi piacciono i tuoi baci. Le tue labbra sono piccole e la tua bocca non si apre quasi mai. Non mi piace la tua simulata chiarezza di fronte ai problemi della vita, il tuo ingenuo pensare che le cose capitino inevitabilmente solo quand’è il momento.
Ingenua. Cosa credevi? Che bastasse una scopata per sentirsi diversi? O forse migliori? Che la mattina dopo il caffè sarebbe stato diverso, magari edulcorato da un orgasmo conquistato fin troppo comodamente in fondo a qualche sudicio vicolo del centro? Come sei patetica adesso, con tutto il tuo carico di buoni propositi. Nuda e Fragile, potrei schiacciarti con un battito di ciglia. E non dirmi che c’hai pensato, e che magari a quest’ora stai già fantasticando su di un probabile rapporto. Non dirmi che ci credi, perché prima di te c’ho creduto io, e perché in tutto questo gioco fatto di vuoti a perdere c’ho guadagnato appena qualche accenno di gastrite.
Sguardi che si intrecciano al bancone, lingue che si incontrano poco più il là. E poi giocare a dare il meglio di se scendendo rasoterra, brucando le ghiande come maiali nella merda.
Ingenua, non riesci nemmeno a mettere in fila due sentimenti.
E mi racconti per ore della tua solitudine.

venerdì 19 giugno 2009

in ferramenta, probabilmente

Probabilmente dovremmo baciarci arrivati a questo punto. E probabilmente dovremmo fermarci ogni tanto per riprendere fiato, aggrappati come gechi su una panchina rugginosa dell’idroscalo. Ora e mai più dovremmo giocare all’amore; perché l’amore è una bombola d’ossigeno a cui manca l’autenticazione ISO 9001, e perché probabilmente l’unica urgenza che avverto in questo momento è quella di metterti la lingua in bocca e soffocare in fretta ogni malcelata inquietudine. Mi baci ti bacio mi baci ti bacio mi baci ti bacio. E ce lo passiamo così questo amore o come diavolo si chiama: col baker della pallavolo per non rischiare di compromettere il set.
Va’ in ferramenta e scava tra i bulloni. E’ lì che mi troverai.

martedì 16 giugno 2009

non lo so

Ancora non lo so se domani parto o se poi magari resto perché in fondo a noi basta un’incognita per rimetterci al mondo con tanto di biglietti da visita e scadenze feriali incollate come buste raccomandate nei cassonetti della posta e non guardarmi così ti prego non guardarmi così non venirmi a dire che sono uno stronzo perché tanto non ci credo è la solita storia è la solita storia è la solita vecchia storia abusata maltrattata stuprata incollata come manifesti elettorali su muri grigi di periferia.

giovedì 4 giugno 2009

sto per arrivare, sto per arrivare, sto per arrivare... Amore

Stasera le parole non escono, non c’è verso. Stasera le parole sono numeri da pescare a caso nel sacchetto della tombola. Stasera mi convinco che le mie scarpe nuove tirate a lucido col fissante, hanno 20 centimetri di suola al di sopra del cemento duro della tangenziale. Stasera mi convinco che è finalmente la mia serata, anche se il mio ego accusa brividi di freddo.
Stasera non è la serata giusta nemmeno per tirare sassi lungo la strada; l’antifurto suona con un colpo di tosse e i cani sono per strada, mentre poco più in là i vigilantes attaccano biglietti da visita sulle saracinesche cigolanti dei negozi di provincia.
Stasera poi forse esco e ti chiamo appena parcheggio in centro. Ti chiamo e ti dico che sto per arrivare, amore. Stasera ti chiamo e ti dico proprio così: che sto per arrivare... Amore.
Compresi i puntini di sospensione.
Scalo le marce verso i miei dubbi, accelero lungo i posti di blocco, stasera gratto le marce sull’asfalto lucido dei miei pensieri. Stasera non mi frega nemmeno di imbottigliarmi nell’ansia della circonvallazione, stasera le gocce di Xanax le lascio a sedimentare sul fondo del container da 20 ml. Stasera voglio solo sentirmi in viaggio nella tua circolazione sanguigna.
Perciò ti prego, aspettami, non te ne andare.
Sto per arrivare, sto per arrivare, sto per arrivare... Amore.