martedì 21 dicembre 2010

come i latticini ce ne andremo in scadenza

Forse come i latticini ce ne andremo in scadenza, nell’ultimo ripiano del frigo o piuttosto in uno scomparto qualunque di un ospedale del centro. Tu verrai a trovarmi in una domenica a pranzo, affronterai il traffico e tutti i lavavetri della circonvallazione ovest. Lascerai le mozzarelle nel frigo, i tranci di maiale e la carne guasta esposta sul tagliere, con buona pace dei parenti venuti da lontano. Ti spolvererai la coscienza che è cosa necessaria prima d’imboccare il reparto, penserai alla morte ma ci sbatterai i tacchi sopra un attimo prima d’entrare in corsia. Mi guarderai e abbasserai lo sguardo, come gli aquiloni che non ce la fanno proprio a prendere il volo quando tira bonaccia.
Quest’inverno lo passerai a pregare, ne sono certo.

Poi verrà il natale, tua madre indosserà il vestito con le perle turchesi e gli orecchini dell’ultima comunione, tua madre sempre più nervosa, il cesto e i torroni vicino al camino.
- Grazie, ma non doveva…
- Ma si figuri…
- Insisto, non doveva.
- Insisto, si figuri.
E allora la vita è veramente un grande botto a capodanno, il modo più economico di farsi le seghe, tua madre che si masturba sui convenevoli, tua madre che non lo sa cosa vogliono dire le lacrime quando battono i tasti neri del pianoforte. Tua madre sempre più nervosa, Raffaele che non sta bene, e poi c’è l’edicola da mandare avanti.

Il pomeriggio io lo passavo a giocare, alla Chiesetta eravamo un branco di cani sciolti col muso piallato sul cemento. La notte sognavamo, dio sa quanto sognavamo, ognuno col suo spartito e il suo ginocchio da medicare. C’era Cribari, terzino sinistro del Fontana Anagni e poi c’era Quiselli, centravanti di sfondamento delle giovanili. C’era Bracalone e Fratoni che facevano a gara a chi le menava più forte e poi c’era Lucia la Pazza, che c’insegnava a ingoiare in fretta il biscotto. Poi c’ero io, che a 18 anni non sapevo ancora crossare e incornare di potenza versa la rete.

Ora piangi, adagiata in dispensa. Poi in un attimo scappi di casa ed è già il treno che arrivava in stazione. C’incontriamo nell’atrio e tu lo vedi che sono ancora in piedi. Baci e piangi che le lacrime fanno un po’ di solletico, mi lecchi la barba che fa schifo tutto questo annaspare. Che fatica la mimica dei sensi, interpretare; vorrei stringerti chissà quanto in quest’androne della Tiburtina, ci siamo finiti per caso e non chiedermi perché le cose vanno sempre a finire in un cesso.

Forse come i latticini ce ne andremo in scadenza, me lo domando tutte le volte che le cose scappano via di corsa senza chiedermi il permesso. Per esempio anche adesso che schivo le buche della Portuense e me ne sto tranquillo sui cordoli del Trullo. Guardo le persone ai bordi della carreggiata e penso dove mai se ne andranno a parare. Se c’è un androne di casa, un anfratto del cazzo dove poter riparare, quello spazio è anche un po’ mio. Se c’è un posto di merda dove vomitare quel po’ di dissesto, quel posto è ancora più mio.

Mentre abbandoni l’atrio e ti sposti veloce verso la porta d’ingresso, io guadagno i giorni che ci hanno reso felici. Tu non lo sai, ma siamo ancora in debito. Ho ancora quel pezzo di peluche sul fondo delle tasche, io non ho mai smesso di toccarlo, io non ho mai smesso di vederti arrivare dal fondo di una strada. Oggi il tuo peluche perde il pelo che è uno spettacolo, vederselo volare per casa è un privilegio che mi concedo raramente.
Cavolo, ti sento ancora.

Non è più un gioco vederti sfumare, ora sono abbastanza grande e le cose le vedo per quello che sono. Le cose sono battiti di cuore e sale cristallizzato sulle guance. Dammi retta, smetti la posta del cuore e impara a muovere il culo. Vienimi a trovare nel migliore dei giorni e lascia perdere i fornelli. Impara a fare la fila. La strada ti lascerà il passo, sarà straordinaria la corsia preferenziale, vederseli sfilare di fianco, i principianti. Niente sarà più lo stesso, i pensieri s’incastreranno nel modo giusto e le festività non avranno più a che fare con le file ai caselli. Poi la strada farà il resto, sulle corsie d’emergenza ci saranno ì giullari a darti il buongiorno; sulle corsie d’emergenza, solo escavatori a ributtarti nel mondo.

Un giorno qualunque aprirai il frigo e ti ricorderai della spesa. Allora entrerai nell’ipermercato e sarai spavalda quando il cassiere t’incalzerà con la carta dei soci in scadenza. Te la caverai con poco, polemizzando coi vecchi sui dettagli del maxisconto. Reclamerai quei 14 punti che mancano per raggiungere il bonus e te ne tornerai vittoriosa a casa, finalmente, coi marmocchi che hanno fatto la cacca e il marito che valuta orgoglioso gli scatti della pensione. Fantastico.

Da queste parti è sempre un giorno qualunque, attendo sulla banchina l’Intercity delle sei e il freddo è così forte che forse mi scappa da ridere.



domenica 24 ottobre 2010

stagnola



Certo, come darle torto, come buttare giù la cornetta proprio adesso che manca così poco a quel benestare così borghese fatto di arrivismi e appagamenti protocollati. La condizione sociale prima di tutto, la proiezione degli occhi e l’andatura così decisa, il tono, la recita, le frappe a carnevale e tutto il resto del tuo blablabla. Perché è su questo modo di vedere le cose che ho registrato i miei sogni, lei dice.
I pesci rossi te li trovi sul fondo del letto tutte le notti che il tuo mondo piange. Ma a questo punto non possiamo  farci più nulla, né io né te né quel mondo ridicolo che ci viaggia di fianco.
La colpa è solo tua che sai come uccidere bene.
Mancavano solo 20 centimetri per espugnare il tuo grembo, solo uno schizzo e avrei conquistato la meta.

martedì 5 ottobre 2010

what If

Vorrei camparti di fianco cent'anni, procurarti le crisi dell'adolescenza e le medicine giuste per la vecchiaia buona. Altrettanta polvere io ti alzerei di fianco, e così fino a quando il becchino non avrà sigillato le imposte. Credimi, una vita è così lunga che tutte le parole di questo mondo bastano solo a tapparci la bocca. E allora vomita tutto, vomita adesso, vomita addosso.

giovedì 9 settembre 2010

Ti ti ti ti

E’ finita. La vita maldestra è finita. Guardatevela pure nello schermo supersonico con la sigaretta poggiata sul pianoforte, tanto è finita. Ci pensavo proprio ieri mentre facevo le scale e guardavo i gradini che sembravano non finirla mai più. E’ finita, davvero. 35 anni sono una roba da non credere, 35 anni corrono più forte dei miei desideri e io non posso farci più nulla. Ora quando infilo la chiave nel portone c’è una micia dall’altra parte che non vede l’ora di fare all’amore e poco più in là ce n’è un’altra che mi lecca le scarpe. Abito su una torretta di 45 metri quadri e quando piove io piscio sul mondo. Quando lo tiro fuori mi sembra di toccare il Subasio perché è da questa altezza che io misuro i coglioni.
E’ finita, e sono miliardi di anni che pronuncio la parola magica. Ma questa volta faccio sul serio, lo giuro. E’ finito il pellegrinaggio dei luoghi comuni, la displasia dei benpensanti e il mercatino dell’usato: stavolta le bollette non mi mettono pensiero, stavolta lascio la mia donna ballare perché è troppo bella quando somiglia a Patty Smith. Poi corre da me e mi bacia tutto, fa un sacco di rumore quando mette in moto l’affetto, mi bacia tutto come bacia una mamma al 1° mese di gravidanza. Una mamma nasce col figlio e il figlio sono io che faccio un sacco di fusa.
Stavolta è finita, davvero.

Fermato sul molo ho guardato l’orizzonte arrivare. C’era un sacco di rumore e le barchette che prendevano il largo per la pesca buona. Al mercato del pesce ho trovato i brividi buoni, puntuali, li ho sentiti scavare e nascosto una lacrima nella giacca a vento. Sul molo di Bisceglie c’era un sacco di gente che bisognava cacciare le mani dentro il retino, guardarle affondare, nascondersi. E poi più a fondo nei cartoni dei traslochi per tirarci sopra appena un batuffolo di polvere. Poggiato sul molo c’ho lasciato almeno un pezzetto di vita, a respirare.
Ti ti ti ti...

mercoledì 30 giugno 2010

Non dirmelo mai che così va la vita

E’ tardi, gli imbianchini stanno per arrivare e gli impresari dell’ENEL hanno già fatto sapere che passeranno a giorni a contare gli scatti. Nuovi inquilini premono impazienti sul civico 24, mentre la giunta comunale ha inaugurato proprio ieri il nuovo piano di assetto stradale. Scendo di corsa le scalette di Via della Luna fino in fondo al muricciolo di mattoncini rossi, lo stesso lastrone di argilla rovente dove riprendevamo fiato dopo la scarpinata verso il centro, ricordi? Mi fermo proprio di fronte al portone, riprendo fiato, indietreggio. Mi guardo attorno come un ladro, guadagno tempo. Ho paura che qualcuno mi riconosca, ho paura che qualcuno venga a dirmi che non è ancora il momento, che qualche muratore mi passi nella mano la cazzuola e che mi indichi la crepa. Ho paura del restauro dei sentimenti, della betoniera incrostata che ingoia ogni pezzetto di vita che oramai puzza di vecchio. Ho solo paura di guardare le cose e di vederle crollare a pezzi.

E’ tardi, ma ho ancora due chiavi nelle tasche. Chiavi in metallo leggero, fatte fresare dodici anni prima nella ferramenta sotto casa in quell’afosa estate del ‘97. Tu le hai già consegnate, probabilmente liquidate con una formale stretta di mano, sbattute con diffidenza sul tavolo dei nostri zelanti affittuari. Forse già tentennano nelle tasche di qualche altro inquilino o forse sono rimaste incollate sul tavolo dell’ambulatorio, schiacciate sotto le carte logore della corrispondenza. Già me le vedo tra le mani dei nuovi affittuari infilarsi cigolose nella serratura, rifiutare l’incastro, incepparsi. Tutta questa inquietudine dovrei buttarla nel tombino comunale e lasciarla sedimentare assieme alla merda, penso; e invece sono ancora qui che doveva succedere prima o poi, che così va la vita e che bisogna imparare a chiudere un sacco di porte prima di comprendere il gioco.

Eppure me lo hanno insegnano sin da piccolo che bisogna stare attenti all’uomo nero, quell’uomo che non dice mai una parola e che se ti viene a trovare nel migliore dei giorni vuol dire che sei davvero fregato sul serio. Anche se non mi hanno mai incoraggiato, anche se col tempo ho imparato a non pensarci troppo, io ci penso spesso alla morte: lo faccio di nascosto, lontano da tutti e con la discrezione del gatto. Ho imparato presto a scivolare tra le cose, lo faccio così bene che quando passo alzo sempre un sacco di polvere.
Eppure questo pomeriggio di giugno non somiglia affatto a una fine, non c’è la camera buia e non ci sono nemmeno le nuvole che fanno l’umore gonfio; c’è invece un sole generoso che non ha la pretesa né tantomeno l’ambizione di scaldarmi di nuovo. Di nuovo era tanti anni prima quando al sole ci passavo tutti i pomeriggi e sull’erba del Tempietto ci s’innamorava in fretta.

Hai lasciato il nastro rosso della laurea ancora attaccato sulla porta e il dopobarba poggiato sulla mensola del bagno. Hai lasciato anche un po’ di polvere sul comodino e tracce del tuo passaggio in dispensa, c’ho passato un dito sopra e m’è rimasto attaccato il sudicio dell’ultima settimana. E che dire del mazzo di carte napoletane poggiate sul marmo del camino, come un conato mi sono tornate di colpo tutte le sere trascorse a passarci il carico con l’ammicco del giocatore consumato, manco fossimo ai tavolini sverniciati del Gran Bar. Di tutti quei fine settimana passati a contarci i punti, mi viene in mente quel dentro-fuori della finale al barretto di Sant’Anna, avevi tra le mani una Napoli a bastoni e gli occhi spalancati come quelli del Signor Quindicipalle. Eravamo complici in una partita a tressette, delatori di una mano a scopone, compagni in una sveltina a briscola. Non hai mai mollato una presa, non l’hai mai saputo fare: lasciare la partita, abbandonare il tavolo. Eri il contabile dei miei giorni migliori.

Le mie misure sono 12x12: dodici anni di convivenza coatta in una camera di dodici metri quadri di spazio. La mia vita è ancora tutta lì, aggrappata con le unghie su quattro pareti di forato radioattivo. Pareti fatiscenti, con le foto e le puntine multicolore che reggono ancora gli anni per miracolo.
Non è una fine questa, non le somiglia affatto. E’ piuttosto uno di quei giorni dove davanti allo specchio scambi il sapone con il detersivo per i piatti, dove il tappo del dentifricio s’incastra bene nel bocchettone del lavandino, dove non hai la minima idea di come hai parcheggiato l’auto la sera prima o di dove hai lasciato le sigarette, l’accendino, gli occhiali da sole o le chiavi di casa. E’ uno di quei giorni dove cammini in centro senza pensare alle scadenze di fine mese, uno di quei giorni in cui ti va di sorridere senza il bisogno di doverti dimostrare per forza qualcosa. Devo sbaraccare casa e non so come fare. Un giorno normale insomma, un giorno che ti cammina di fianco e che ti fa appena il solletico.

Hai lasciato l’ombrello a due passi dalla porta e non credevo proprio che potessi dimenticarti anche di lui. Me lo sono portato a casa che sembravo il Chisciotte di ritorno dai mulini a vento, lo stringevo forte sotto l’avambraccio e lo sai, le persone mi guardavano così strano che ho dovuto tagliare per le vie minori, schivare gli sguardi, passare oltre. Sarà stato per via del sole, o sarà stato perché le persone guardano con diffidenza tutto ciò che non le somiglia, ché tutto ciò che con la vita non pareggia i conti troppo spesso ci fa a cazzotti. Sta di fatto che ho bisticciato con un coglione che se la rideva a due passi dalle scale mobili, rotto il naso e spaccato la nocca del mignolo, ecco tutto. Io credo che le persone non sono abituate a tenersele strette, le cose. Io ho raccolto l’ombrello e imboccato di corsa il sottopassaggio. Passato oltre, ecco.

Hai lasciato le pentole a screpolarsi in credenza, tappi di sughero e bottiglie stappate a prendere d’aceto vicino ai fornelli. E sa di tappo tutto questo disordine, capodanno in anticipo o ultimo giorno di scuola. E che ci dicano pure che eravamo di troppo, che non avevamo più sapone da spargere per casa: se i nuovi inquilini avranno prodotti migliori, che ce la insegnino loro la metodica. E che ci bacino pure il culo.
Penso che hai sbagliato a staccare il contatore e a segnare gli scatti, ho consultato la bolletta e i conti non tornano proprio. Un po’ di cenere sul davanzale della cucina e già mi sembra di vedere che te la fumi fino in fondo la tua ultima cicca, che la respiri forte nei polmoni e la pressi giù per gli alveoli fino a ostruire le vene. Due minuti, appena due minuti prima di dire addio a quei dodici anni di vita condensata.
Appena due muniti prima.

Scemo è inutile che ti guardi attorno con quegli occhi lucidi di gatto, guarda che ho dovuto andarmene, HO DOVUTO, capito? Quindi non metterti a frignare lì sulla porta che non era ancora il momento e che adesso il Cinastik non è più lo stesso senza le mie pinte di rossa poggiate sul bancone, OK? Perché se ti guardi attorno lo vedi da te che anche senza di noi le cose restano comunque appiccicate al muro. Nemmeno l’amore è immune da certe imperfezioni, figuriamoci noi. Sai, a volte c’ho pensato, ho pensato a quanto è dura tenersela stretta, la polvere: quando sposti le cose hai sempre il sospetto di trovarci qualcosa di meglio che un batuffolo di capelli. E invece questo siamo, e allora accontentati di passarci pure lo straccio: almeno avrai il sollievo di tirare via lo sporco.
E’ così che vanno le cose, semplicemente cambiano residenza, numero civico, a volte padrone. E se non c’hai pensato in tutto questo tempo, beh, allora sono fatti tuoi. Io non posso farci più nulla perché così va la vita, perché così va la vita, perché così va la vita…

Ti odio, mentre piango e rido come uno scemo, io ti amo. Il mondo sorride perché il mondo là fuori vince sempre. Qui dentro il mondo non c’entra, qui dentro siamo come i cavalli che non lo sanno mai quand’è finita la corsa. E se poi i cavalli hanno vinto. O se magari hanno perso. Per sempre.
Almeno dimmi dov’è il riscatto, l’indennità di disoccupazione, quel pezzo di filigrana che s’incassa alla fine dei giochi. Dov’è la liquidazione? Quando le cose finiscono c’è sempre una parete bianca su cui vomitare quel po’ d’insolvenza, non riesco a capire. E mi domando dov’è che ho sbagliato, qual è stato il giorno e l’ora che non ho compreso, l’attimo di storia che mi ha visto perdente.
Giro per casa e mi appoggio al comodino, se ci frugo più dentro posso solo aspirare la polvere dell’Intercity. Eppure ci dev’essere da qualche parte un calzino, una roba sporca, qualcosa d’annusare. Ci dev’essere un pezzo di vita da qualche parte, c’è stata dappertutto e figuriamoci adesso che non ci sei. E allora corro, corro lungo il perimetro di 50 metri quadri di mattonelle grigie, corro rovistando in ogni angolo di spazio, corro sul riverbero dei passi che fracassano nella testa come fossero stecchini. Cerco un alibi alla mia solitudine, magari un carcere.

Chiudo la porta dietro di me, getto un ultimo sguardo sulle scale di marmo maculato del terzo piano e m’incammino, in discesa. Sono fuori, tra raggi di sole che bruciano gli occhi e scavano il nero delle tapparelle. La luce ora è così forte che non riesco nemmeno a contare i passi. Ma dammi solo un attimo di tempo e vedrai, monto sul primo treno e in meno di quattro ore sono già da te. Corro e ti abbraccio come non ho mai fatto, vengo a dirti che tutta questa distanza in fin dei conti non fa poi tutto il silenzio che resta. Vedrai che non è cambiato nulla, ché mica le cose cambiano così dall’oggi al domani. Poi mi dirai che sono troppo emotivo e proverai di nuovo a cacciarmi le lacrime dagli occhi. E proverai a convincermi che è sempre indispensabile perdersi. Che questa è la vita e che nonostante gli anni ha sempre bisogno di sentire il fischio del treno. Ma per favore non fare come tutti gli altri che così va la vita.
Non dirmelo mai che così va la vita.

venerdì 11 giugno 2010

Ayrton

Il primo maggio del novantaquattro io avevo diciannove anni e una ragazza con cui correre tutti i fine settimana. Il primo maggio del novantaquattro io la vita non potevo capirla perché certe cose scappano via di corsa e non bisogna pensarci troppo quando le cose corrono più forte di te. Se corrono più forte ci dev’essere un motivo e a diciannove anni non c’è ancora un buon motivo per fermarcisi a pensare.
Il primo maggio del novantaquattro c'era un gran silenzio e mia madre che mi abbracciava sulla banchina della stazione. Io quel giorno i sui occhi non li guardavo perché piangevano forte e una mamma che piange forte è un’altra cosa che non si racconta. C’era un gran silenzio perché la vita uno la scopre solo quando la trasmettono sui telegiornali, e allora ti prende quel coccolone che quando sei piccolo non lo puoi capire perché tutto il silenzio del mondo esiste solo nel perimetro del letto di un bambino che sogna. Poi quel silenzio cresce e col tempo accosta tutti i letti del mondo, le case, le famiglie, le situazioni, perché il dolore del mondo intero è la colla più forte. E allora il primo maggio del novantaquattro bastava sporgersi dal finestrino della Fiesta 1.2 per sentire dai terrazzi l’edizione straordinaria del Tg1.

Alle 14.17 di domenica primo maggio 1994, la Williams di Ayrton colpisce il muretto di cemento all'esterno della curva del Tamburello a una velocità di circa 200 km/h. Nel violento urto il lato destro della vettura è devastato, le due ruote, le ali, e i triangoli delle sospensioni, volano in aria come proiettili mentre la vettura rimbalza lenta verso il bordo pista.

Mamma dice che non è ancora finita, mamma dice che preparerà in fretta un bagno caldo e che ci si butterà dentro vestita. E dice anche che la corsa non sarà mai più la stessa se è vero che manca il campione. Io le chiedo che cos’è un campione e lei mi risponde che è qualcosa che si vive la tua vita migliore. Io le chiedo perché le cose finiscono e lei mi dice che le cose non finiscono mai se c’è qualcuno che se le sogna. Io dico a mamma se sognare è un po’ come crescere in fretta e lei mi dice di non mettere mai i piedi fuori dal letto. Poi butta indietro i capelli e mi asciuga le guance: ed è un’altra cosa che non si racconta, la gioia.

La Williams esaurisce la sua energia strisciando e impuntandosi nella fascia d'erba fino a fermarsi a pochi metri dall'asfalto. L'elicottero riprende impietoso la scena, il casco giallo di Ayrton è reclinato a destra, immobile, sotto il primo sole che brucia l’asfalto. Poi, per due volte, il pilota ha un riflesso incondizionato e si muove come per raddrizzarsi; ma è solo un lampo che dura pochissimo, i primi uomini del servizio raggiungono la monoposto e si rendono conto della situazione: il pilota non è cosciente, il casco è letteralmente zuppo di sangue. Ayrton viene estratto dall'auto e disteso sul cemento di fianco, il suo cuore batte ancora quando i medici operano una tracheotomia per liberare le vie respiratorie; sotto di lui, distesa sul cemento nuovo del Tamburello, si espande una macchia rossa inequivocabile.

Odore di primavera, odore di magnolia nelle sale d’aspetto fino in fondo all’ultimo vagone di terza classe. Odore di fresco, dappertutto. Io avevo appena fatto l’amore, io annusavo la vita e avevo le mutande umide e la patta ancora aperta sui calzoni. Io non lo potevo capire tutto quel silenzio, io non ero ancora fatto per il mondo e il mondo era una matrioska rossa da sbavare fino all’osso. Non ero l’uomo che faceva il lavoro, la famiglia, la storia. Per me la vita era il circuito di Indianapolis senza la curva del Tamburello e le curve erano parole che se le sbagli puoi sempre usare il bianchetto.

L'elicottero del servizio medico atterra sul rettilineo del Tamburello, Ayrton viene trasferito dal circuito di Imola all'ospedale di Bologna. Il mondo spera mentre il campione va’ ripetutamente in arresto cardiaco. I medici riescono a mantenere in attività il cuore fino al ricovero nella stanza 214 dell’ospedale Maggiore, ma è del tutto inutile. Il primo bollettino diramato è inappellabile, l'encefalogramma del pilota è completamente piatto, solo le macchine tengono il suo cuore in attività. Alle ore 18:40 Ayrton viene ufficialmente dichiarato morto.

Mamma, dimmelo ancora perché le cose la smettono di correre, ripetimelo fino all’alba e poi ancora fino a quando le cose non passeranno il Tamburello e saranno già troppo lontane. Come funziona quando si perde o si vince, se è il caso di esultare o se magari è questione d’incagli e si passa la vita nella pena di niente. Cosa ne faccio del mio carico di sogni, li potrò ancora scambiare al mercatino di Via delle Streghe o saranno già vuoti come vasi di terracotta? Forse le cose hanno fretta di andare a sbattere o forse è la strada che è piena di curve, non saprei dirti, mamma; me lo domando tutte le sere in quel perimetro di letto ma sono ancora qui che mi alleno a stringerle senza il gusto di acchiapparle. Perché le cose scappano via di corsa che persino tu ora ai fretta di spegnere la luce. Almeno dimmi se ti trovo sotto il cuscino o se oggi è già un pezzetto in meno che mi stringe la mano. E se mi racconti qualche bugia guarda che prima o poi lo capisco, ché un campione chiude gli occhi e lascia andare le cose anche quando tu piangi. Perché le cose non finiscono mai se c’è qualcuno che se le sogna.

- Mamma, che cos’è un campione?
- E’ qualcosa che si vive la tua vita migliore.

Dormi adesso che è tardi.

mercoledì 2 giugno 2010

l'aspirapolvere non si cura della vita poco più in là

Uso l’aspirapolvere di rado, lo uso con parsimonia perché c’ho sempre meno tempo di scovare le camole tra gli angoli del letto. Devo ammettere di aver passato gli ultimi tempi in un porcile di frequentazioni e ambienti poco areati, la polvere sul comodino, la polvere che mi segue come uno stronzo secco sulla scocca lucida del cesso. La polvere sul completo nuovo di mattina presto poi è una cosa che non si racconta. Un giorno mi sveglio tutto sudato e il prurito me lo sento addosso dappertutto, provo a farmi una doccia ma la cosa non funziona affatto. Allora passo in rassegna la rubrica e inizio a eliminare i contatti superflui; sto quindici minuti sulla M di Marco e trentotto sulla F di Francesca. Poco dopo sono già sulle scale che traffico con la vita degli altri, e la vita degli altri è una cosa che lustra avanti e indietro la tromba del condominio.

Buongiorno, mi fa. Salve, dico.
“Come va”? Va come un autotreno in sosta sulla Salerno-Reggio Calabria, dico. E passo via.

Il pensiero ha voglia di uscire di strada, il pensiero è ancora lucido quando affronta l’ultima rampa e si caccia di fuori. La luce è questo giorno che m’abbaia il faro in fondo alla strada, la luce sono i cani che pisciano sui lampioni e una lastra fotografica che m’impressiona nel mondo. Un ragno scappa e risale veloce il nervo ottico, dice che sono due mesi che non esco di casa. Poi incontro le vecchiette che mi salutano e che aspettano la visita dal dottore. Dicono che il sistema sanitario non funziona e che non funziona perché c’è d’aspettare troppo. Mi piace ascoltare le vecchiette quando passano in rassegna i vicoli, le persone, le cose. L’indiscrezione è il verme che premono sull’amo, Il gozzo teso in attesa del pasto. E oggi il pasto è il sindaco che sembra non cambiare il partito, ancora polvere e problemi sparsi sull’arredamento. Gli occhi non la smettono di correre e mi indicano un modo migliore di starsene al mondo: sapere di non essere solo.

Con i vecchi esco dallo studio e partiamo di corsa verso la strada. Sembriamo dei manufatti in avorio di una corsa campestre, suppellettili di marzapane del libro Cuore. Li frego tutti sugli anni e arrivo per primo in farmacia. Qui ho un attimo di blocco perché le farmacie in generale mi provocano il singhiozzo del dilettante, sterili e asettiche come il culo di un neonato cosparso di Amuchina®. Ordino una confezione di Moment e questa volta me la cavo con poco, solo un mal di testa per la notte passata, tutto qui. Torno a casa e affronto le scale fino all’ultimo piano. La vita degli altri è ancora lì sulle scale, e forse le domando com’è che è andata.

E come vuoi che vada… pulivo le scale, non mi sono mossa di qui. Poi, con un colpo di tosse, mi spinge dentro.

Poggio il Moment sul comodino e accendo l’aspirapolvere; mi accomodo sul divano, lo lascio andare per ore. Mi piace sentire il rumore che copre la vita.

mercoledì 26 maggio 2010

ci sono molti modi

Ci sono molti modi per fare l’amore, se lo faccio da dietro ti sento più forte. Da dietro non sento la pressione dei tuoi occhi che mi respingono, da dietro il mondo è più semplice se io non lo vedo. Vuoi provare, sei brava e te la cavi con poco, a te basta muovere il bacino per sentire il prurito. Ci sono molti modi per sentirsi importanti, tra questi modi di gestire le cose il migliore è farle venire. Atterro sulla tua pancia ed è solo un attimo che vola incosciente tra le pareti della tua stanza; ma è anche un attimo che mi piega sudato - un attimo dopo - sul lato comodo del letto. I piedi sbattono forte perché le ali di farfalla sono ormai a terra. Ci sono molti modi di addormentarsi sul petto, il migliore è cacciare la testa nell’incavo della scapola.

- Ti è piaciuto?
- Si mi è piaciuto…
- A cosa pensi?
- A domani.

Domani ci svegliamo col primo rumore di treno e tu sei già in piedi che aspetti il lavoro. Mi prepari il caffè e me lo porti nel letto, di mattina presto poi faccio fatica ad accettare le cose. Il tuo modo di vedermi è qualcosa che non mi lascia perplesso - dio quanto lo vorrei - piuttosto un modo di pensare l’amore e sentirselo comodo. Le attenzioni che mi serbi sono un passato che mi rigiro ancora e poi ancora nel letto; forse un cliché, non saprei dire. Mi baci e sento tutto il sapore della notte passata, e se mi rimbocco le coperte mi torna come un rigurgito il tuo umore sudato. Tra la notte e il buongiorno ci sono molti modi di vedere le cose, un mondo diverso di attraversare le strisce, l’affitto, le bollette, le persone, il traffico, i semafori, la spesa. Tornerò dal lavoro e farò la fila alla cassa, comprerò due bottiglie e torneremo nel letto. Fino alla fine dei giorni.

- A cosa pensi?
- A niente.

Niente è il soffitto che ci vomita il calcestruzzo sugli occhi. Niente è l’errore che ci attende poco più in là. Niente sono le merende di quando ero bambino e avevo tanti occhi addosso con cui giocare. Niente è vederli passare, sposarsi, invecchiare, dissolversi. Niente sono i capelli di mia madre che corrono come carta zucchero sui carri a carnevale, le sue cartilagini, la pelle tirata che fa a botte con i suoi occhi celesti. Niente sono le figurine Panini scambiate di rapina sotto il banco, le partite a calcetto, le mani enormi del maestro Felli. Niente è il giorno che me ne sono andato di casa, niente il giorno della mia laurea, niente la tesi di dottorato e tutte le mattine che mi sono sentito più veloce e più in fretta degli altri. Niente sono i tuoi occhi verdi che mi aspettano e che già sanno che prima o poi ritorno.
Ci sono molti modi per tornarsene a casa: uno di questi è infilarsi in un letto.

- Che bello…

mercoledì 19 maggio 2010

la festa sta per cominciare

Avanti e indietro per cercare di impegnare i pensieri in qualche reazione chimica che mi porti il cervello il più possibile lontano. Qui da me il mondo non somiglia affatto a mio nipote che a quattro anni si attacca ancora al collo e fa l'altalena quando è il momento dei congedi. Qui da me il mondo arriva tutto di botto e la mattina ti uccide col suo alito pesante. Gli dico che torno presto, un attimo solo per riempire la ciotola dei gatti e poi via, tutta una tirata fino a Perugia Villaggio di Santa Livia civico 101. 240 chilometri di una strada che imparo a conoscere di fretta. Lui fa spallucce, inarca il labbrino e si mette a frignare Ben10. Tanto lo sa che poi torno, uno zio come il mio è meglio di tutti i Ben10 della notte, lui pensa.

E poi via da solo, lungo la Roma – Civitavecchia statale91. Non c'è nemmeno un angolo di luce a cui affidare la distrazione dei miei occhi grigi, il cielo è una massa opaca e i suoi contorni sono chilometri che sfilano oltre l'alone dello specchietto retrovisore. La camera del posto guida ha i colori pallidi della pellicola viola, sta per entrare l'estate e io non vedo che fango ai bordi della carreggiata. All'orizzonte colori neutri, lo smalto azzurro della scocca è da poco passato in ruggine. Sono le 19.45 e ho guadagnato il cavalcavia che dalla statale per Cesena s'innesta sulla E45. Mi accendo una sigaretta e faccio finta di niente. Piove da un mese, la dinamica dei tergicristalli mi annoia, sorpasso un autotreno targato Brescia.

Dentro la mia stanza suona leave the bourbon on the shelf, nella mia stanza c'è acqua salata che cola verticale. E allora ci provo a leccare il tutto, ma mi rendo conto che solo l'uomo ragno può arrampicarsi sui palazzi e scalare le montagne. E allora penso a mio nipote che a quattro anni non c'ha paura di sfidare la strega secca, lui che ad ogni botta di vita la sconfiggerà sempre e comunque. Lui che c'ha lo zio più forte del mondo, pensa.

Tra poco sarà il mio compleanno e non ho ancora deciso chi invitare alla festa. Come ogni anno ci saranno i clown con il naso giallo e le flappers con i reggicalze e tutto il resto. Ci pensavo oggi mentre fissavo le tette della cassiera che se le era scollate apposta.
- Cosa fai, guardi? - chiede la quarantenne in evidente crisi coniugale.
- Si, mi piacciono le tue tette.
S'impaccia con le buste, il resto non le torna.
- Fatti una sega.
- Sicuro.
E questo è quanto. Venite a casa mia, la festa sta per cominciare.

venerdì 14 maggio 2010

il dolore è un chiavistello in ferro battuto

Oggi un amico mi ha telefonato con la scusa del week-end e c'ha infilato di traverso i cazzi miei. Voleva sapere, l'amico, voleva strapparmi di bocca un dolore che non ho mai trovato il coraggio di condividere. Perché il dolore è un affare troppo lungo da raccontare, non sai mai da dove comincia e quel che è peggio non si sa mai dove andrà a parare. Se il dolore non ti riguarda, tutto quest'affare diventa un protocollo buono solo a spalmarci sopra la coscienza; se lo racconti, il dolore, non c'è mai nessuno davvero buono a farci un'obiezione. E a me non piacciono le cose che non fanno opposizione.

Ad esempio parliamo della morte e diciamo pure che era stata prevista e programmata da tempo. Ma le persone - l'amico - ti tendono la mano e sembrano dirti che i miracoli esistono per davvero anche se non ce ne siamo mai accorti. Non sono solo un mucchio di fregnacce, funzionano bene così come le cure omeopatiche. L'amico non se ne rende conto ma è davvero patetico con tutti i suoi rimandi anodini freschi di retorica da bancone del pesce fresco. Datti una regolata bello, perché la vita non me la devi insegnare e non me la devi insegnare adesso. La vita è un ammasso di cellule che si moltiplicano e che quando vogliono finirla lì non ti spediscono nemmeno la raccomandata. Io al mio amico vorrei dirgli che è finita da un bel pezzo e che sono appena trascorsi quindici minuti di luoghi comuni. Piuttosto butta giù il telefono che la vita per te è là fuori e certe cose sono più grandi dei tuoi pensieri da pesce, ecco cosa vorrei dire al mio amico e a quel cazzo di mondo comodo e morboso. E invece dico solo che è un tappo alle vie biliari, un'operazione da risolversi in un nulla.

Il dolore degli altri è scontato, non fa mai troppo rumore. Il dolore degli altri deborda la parte più abietta del genere umano, funge da zerbino per la propria coscienza. Perché la pietà è una cosa disgustosa, un'elemosina di tutti e cinque i sensi messi assieme. Dio che strazio le persone buone, quelli con gli avverbi protocollati, le pacche sulle spalle e tutto lo schifo del loro contagio. Il bisogno di sapere che c'è sempre chi sta messo peggio, il bisogno di una comparazione. E' inutile che continui a bussare, il dolore è un chiavistello in ferro battuto che non si può diroccare. Piuttosto, basterebbe continuare ad annaffiare il giardino per una comprensione totale.

Post Scriptum
Poi arrivarono finalmente, frementi di adrenalina e bava che gli colava dalla bocca. Arrivarono con le loro mani sudate e le loro strette mortali. Arrivarono tutti, puntuali, con i loro baci appiccicosi e le loro facce così incapaci di simulare una sofferenza che in ogni caso non li riguardava. Timbravano il cartellino e scappavano via come topi in cerca di una fogna.

mercoledì 12 maggio 2010

la follia arriverà a sorprenderci nudi

Il citofono continua a trillare, mescolato al calcinaccio dei muratori. Sprofondi la testa più a fondo e serri le tempie contro i lembi del cuscino fradicio di sudore. I muratori vengono chiamati per la pausa pranzo, mollano scalpelli e piccozze e si avviano verso il container giallo del capomastro. Il trillo risuona più forte, rimbalza come una pallina da ping-pong lungo le pareti oscure della camera da letto e tu che non puoi scappare perché il giorno ti ha già trovato. Ma non è il citofono, è il campanello che ha i toni acuti del cellulare; e allora pensi alla padrona di casa e alla scadenza dell’affitto di fine mese. Apri la porta ma non le somiglia affatto.

Non ero spaventato, e nemmeno sorpreso. Sapevo che era Lei, me lo ero immaginato così intensamente che avevo percorso al suo fianco tutta la strada che va da casa di Maria sino al civico 24 di Via della Luna. Avevo persino sentito la pressione del dito sul campanello di casa un attimo prima del trillo. Non avevo nemmeno sperato, avevo soltanto atteso ciò che era inevitabile. Restiamo come due perfetti estranei che non conoscono le parole di circostanza e la lascio lì, sull’uscio della porta. Mi avvio lentamente verso la camera e mi abbandono sul letto, facendo finta di niente: cazzi miei.

Non una parola.

Il chiaro scuro della camera da letto si prende cura delle sue forme, lascia ogni particolare finito, modellato; disegna nitidamente i contorni del suo petto e proietta sulle pareti lo spettacolo delle sue ombre cinesi. E’ in quei contorni che adesso trovo i miei limiti, più in là ci sono solo coperte da stringere a morsi in troppe notti filtrate al lume dei ricordi.
La studio, nella penombra della stanza. Non c’è innocenza nei suoi occhi: al contrario, un ombra di perversione che tiene in tensione il mio corpo e ne amplifica irrazionalmente i sensi. Tira il busto più indietro e appoggia i gomiti sul tavolo della scrivania; la linea dei seni si tratteggia veloce sotto il vestito e poco più in là, poco più sotto la trama di acetato grigio, la punta dei capezzoli dilata leggermente la seta: sembra prendersi gioco della sua sicurezza. Mi vuole, la sua immobilità non lascia spazio a nessuna alternativa e non ammette vie di fuga. Devo essere suo, ora, adesso.

Me ne sto lì, al calore rassicurante del mio letto, spalle al muro. E ad ogni battito del tempo che passa sulle lancette in ferro battuto di un orologio appeso in qualche parte della casa, sento gli umori incalzare come cavi elettrici nel basso ventre. L’aria è satura di quell’odore acre, lo stesso odore che ho lasciato poco prima sul davanzale di quell’appartamento all’ultimo piano.
Tiro un sospiro di sollievo e allungo la mano verso il comodino in cerca del pacchetto di Fortuna. Mentre armeggio nell’intento di scovare un accendino sepolto da qualche parte sotto un cumulo di libri, lattine di birra, confezioni di ansiolitici e pacchetti vuoti di sigarette, mi ricordo della confezione di preservativi nascosta sui fondali del secondo cassetto. Il package da 6 è terminato da un bel pezzo, l’ultimo preservativo l’ho scartato un mese prima per simulare una scopata con una cassiera che me l’aveva fatto venire duro.

- Non l’accendere...
- Perché?
- Perché non c’entra nulla, ora.

Mi sfilo via la sigaretta e lei ci appoggia sopra le labbra senza premere troppo. Poi le apre leggermente ed è un lembo di umidità che si muove a destra e sinistra e che s’incunea negli angoli della bocca. Esce fuori e scende fino al collo, risale veloce verso gli zigomi e poi si ferma sull’occhio: restiamo per un attimo riflessi e poi me lo bacia, il mio mondo. I suoi baci entrano ed escono e sospirano forte ad ogni affondo, umettano la cavità dell’orecchio e si fermano solo per mancanza di spazi. Provo a partecipare facendo scivolare la mano, ma lei me la blocca.
- Fermo, non ti muovere... - mi dice, risistemandola vicino alla spalliera.
Scende più giù, mi sbottona la camicia fino all’attaccatura dei calzoni. Non c’è più nemmeno un centimetro da scoprire, lei continua così perché vuole lasciarsi il vuoto alle spalle: che si prendano solo le briciole, le troie.
Abbiamo scopato come i gatti, facendo le fusa e mischiato l’umore con la saliva. Ricoperto la terra dopo i bisogni, nascosto agli altri quel po' d’intimità.

- Aspetta...
- Cosa?
- Togliti le scarpe.

Ci siamo scopati il tessuto cardiaco, disinfettato le ferite con le garze sterili del nostro pronto soccorso. Le mani non mollavano la presa, le mani erano incollate sulla resina e la resina era la pelle sudata. L’odore del sesso sfondava le coperte e sotto le coperte c’era la cadenza regolare di ogni piacere esigente.
- Fai piano... così... ora ti sento.

A tratti freddo. Freddo sui piedi scoperti, freddo su ogni pezzetto di carne scivolato incautamente oltre l’estremità delle coperte.
E poi le mie labbra sui suoi seni e le sue labbra sul mio petto, lungo le gambe, lungo quelle finite strisce di territorio da conquistare a fatica. Waterloo o piuttosto Fort Alamo, non ci siamo dati una tregua. Ho atteso l’offensiva barricato in difesa, trovato un varco sul fianco sinistro e scivolato rapido sul litorale della sua schiena.
Ti ho presa da dietro, come un vigliacco.

Poi il congedo dalla muscolatura liscia, gli umori circoscritti dal lattice, la tregua narcotizzata dei sensi come fosse la fine. Abbiamo sostato sul bordo del letto e ci è parso di scorgere il precipizio. E siamo rimasti muti, come i pesci a contemplare una profondità.
E ci siamo arresi, appena in tempo.

Rimango immobile, fisso le mattonelle ruvide della camera da letto. Strisce orizzontali filtrano dalle tapparelle in acciaio coibentato. Lascio cadere le palpebre sul cuscino e aspetto fiducioso la fine. La follia arriverà, prima o poi, a sorprenderci nudi.

- Stringimi...

sabato 8 maggio 2010

abstract di una storia (Rosanna non sei tu)

Oggi mi hai mostrato l’anulare col cerchio dorato. L’hai fatto apposta, ed eri anche abbastanza sincera quando mi hai detto: “sono felice di rivederti”. Poi hai posato la mano sinistra sul banco del bar e l’hai tenuta tesa, come a sottolinearne lo stato e l’amarezza. Faccio finta di niente, certe cose non mi toccano dai tempi delle superiori e ho smesso da un bel pezzo con la competizione. Mi chiudo in difesa e limito i danni della tua imboscata: è la tua rivincita e te la concedo volentieri.
Dicono che dall'anulare sinistro parta una vena che finisce direttamente al cuore. La credenza risale ai romani, che erano convinti che in questa vena scorressero i sentimenti. Non avendo l’oro a disposizione fasciavano l'anulare sinistro col ferro, di modo che lo sposo, per sempre, avrebbe potuto garantirsi la fedeltà della propria moglie.
A cosa serve, a cosa è servito, a cosa mi servirà domani quest’ultimo atto di fede. Forse mi aiuterà a giocare meglio le carte, a difendere lo scudo spaziale e a intercettare i missili nucleari. Ci penso e ci ripenso, deve esserci un porto, un cesso, un luogo sperduto fuori o dentro la mente, un anfratto di mondo dove vomitarti per sempre. Eppure non c’è niente che somigli a quei pezzetti di pasta imbevuti di acido e vino rosso, non c’è frammento a terra né grumi di polvere da spazzare per bene.
Niente, non c’è più niente di noi.
Nemmeno il gusto di raccoglierne i pezzi.
Ma invece c’è tutto. C’è un pensiero che si sporca nel catino del bucato o piuttosto nel caffè di ogni mattina, nelle ore di punta. C’è un pensiero ogni volta che mi guardo attorno e mi ritrovo solo alla cassa 4 del supermercato.
A scuola i professori c’insegnavano l’amore ma noi lo facevamo meglio nel doposcuola. Non ci sfiorava il traffico e non ci sfioravano i giorni che se ne volavano via come bolle di sapone. Le lacrime erano un liquido che cercava la sua via di fuga, e le lacrime erano una barchetta che armeggiava sempre il suo porto.
E questo è l’abstract di questa storia, calzino spaiato nel cestello dei panni sporchi. Il resto stinge nella centrifuga e implora solerte il perdono.

domenica 2 maggio 2010

su questa stupida panchina d'aprile

Mi domandi se la febbre è passata, cose del genere. Fai un sorriso che non m’aspetto e che si applica come gomma americana sugli zigomi scavati. Abbasso lo sguardo perché non me lo merito questo tuo modo di startene al mondo, questo accenno di vita puramente formale, retorico. Ma tu m’incalzi di nuovo come se fossi io il malato, la persona speculare a cui elemosinare quel po’ di tempo che resta.
Piuttosto parliamo di noi, di come ci siamo incontrati. Raccontami il momento più bello, parlami di Sally, la canticchiavi sempre e non me la ricordo già più. Come spiegare la tua dipartita, come spiegarla a me e poi a tutti quelli che verranno quando tu non sarai già più in tempo. Come prepararmi per quel trillo di telefono, rispondere che si, io l’avevo compreso, io c’ero ma non l’ho potuto fermare, quel pezzetto di mondo.
Ho la vista annebbiata, un bel po’ di alcool che sembra non sortire il suo effetto, e un blister di antibiotici da gestire in fondo allo stomaco. Sei qui, a nemmeno dieci centimetri dalle mie mani, e non trovo la forza di allungare un mignolo. Il futuro si arresta, il passato se la ride, le aspettative giacciono moribonde su di un lettino d’ospedale che sembra più luminoso di tutti gli altri. Ma è solo il tramonto che ci sbatte di contro, sono i miei occhi che non la smettono di fissare l’intercapedine anodizzata delle finestre della stanza 14, sono io che non voglio capirci più nulla di tutto questo mondo assurdo di affrontare le cose e vedersele ogni volta sfumare, morire d’inedia.
Ora la musica è davvero forte, ce l’ho nelle orecchie perché tu ora la stai fischiettando, e vorrei poterti scandire ogni singola parola perché a ripeterla nel frastuono dei parenti si perde tutta quella retorica che a me tanto necessita. Mi concedo un altro giro di sotto, solo un altro giro al bancone per rinfrancare il coraggio e mischiare le carte. Ti lascio ancora per dieci minuti, lo so che non l’ho mai fatto, che da quando è successo mi sento come una barchetta a cui hanno negato il largo; ma da quando lo faccio mi sento anche un po’ meglio. Forse è così che funziona, forse le cose le capisci meglio quando ci bevi sopra. Le persone vanno e vengono sul vano 14 e io la parte del numeretto non me la sento proprio. Non con te. Non oggi.
Scendo le scale fino al piano terra e mi viene la paura di aver dimenticato qualcosa più indietro, la colazione a letto, le molliche sull’inguine o magari tutto il resto, che ne so. Perché la colazione a letto c’entra con l’amore che non si racconta, e perché è così che troppo spesso le lascio andare, le cose: di mattina presto il più delle volte, con una tazzina di caffè in una mano e la sigaretta nell’altra. In mutande.
Sorseggio la mia storia, ne assaporo il retrogusto, me la passo sulla lingua e tra i denti, la guardo scendere velocemente giù per le scale, voltarsi un attimo e infine buttarsi in strada ingoiata dal traffico. Per sempre. E’ così che vanno le mie, di cose.
Mi fermo solo un attimo per le sigarette, due battute col barista, qualche considerazione sulla finalissima di Champions, poche parole gettate sul bancone come fossero spiccioli di mancia. E poi il vodka lemon che brucia nell’esofago e di colpo tutto il passato che affiora trasparente quanto il cristallo limpido del bicchiere vuoto. Ma è solo un rapido, ingenuo, colpetto di tosse.
E allora corro, corro più forte dei blocchi della ZTL, corro più forte di ogni mia insicurezza. Guardo con la coda dell’occhio tutte le uscite della E45 sfilare via come fossero birilli, guardo la vita appiccicata come una zanzara sullo specchietto retrovisore della mia Clio 1.2 metallizzata come il cielo. E chissenefrega se stasera uso il clacson come un macete da cultori della strada, stasera perdo troppo e mi godo la vita annaspare dall’altra parte della carreggiata, almeno quello.
Parcheggio in centro, faccio spalle larghe sui divieti di sosta. Mi guardo bene dalle tute bianche della municipale, stasera ho solo voglia di giocare a mosca ceca e mettermi a riparo dal mondo. Quand’ero piccolo il mondo stava tutto nell’oscurità di un nascondiglio e non c’era bisogno di andarselo a cercare perché era il mondo che ci pensava. Anche quando per strada non c’era nessuno e la strada sembrava un cemento liquido che scorreva lento sulle chiatte grigie della tangenziale, era il mondo e i suoi sacchi d’immondizia che ti venivano a trovare. E poi gatti neri e camole da pastura a banchettarci sopra. E quando il mondo ti trovava finiva tutto con una conta fino a dieci, e a quel punto ero io che facevo il mondo e tutto il resto che si andava a nascondere sempre troppo lontano. Adesso non sono più mondo e non sono più niente, ho solo paura che tra non molto mi verrai a stanare e che mi troverai impotente, inetto, su questa stupida panchina d’aprile.
Attendo la tua comparsa, gli incisivi rugano i polpastrelli, la paura che sai pazientemente trasmettermi. Apprendi il codice della mia insicurezza, tu sai come smettere il gioco.
Faccio le scale due a due, guardo la mia faccia riflessa sui piani opachi del dipartimento. Il tramonto è bellissimo, i raggi bucano le vetrate e si spalmano sulle piastrelle bianche azzurre del policlinico. Stasera ho smesso il vestito migliore e indossato il buonumore fresco di bucato. La notte mi sorride, le luci del reparto rallegrano i miei passi, le donne ricambiano fiduciose il mio sguardo.
- Ci vediamo in centro davanti all’arco.
- Ok. Davanti all’arco, domani.
E’ così che ci siamo incontrati, ora ricordo.

Dai che ce la facciamo con le fragole e con i brividi che se ne volano via. La follia è un aeroplano che barcolla al decollo, e vivere non è mai stato semplice se non c’eri più tu.

mercoledì 28 aprile 2010

la panchina del Forlanini è sola contro aprile

E poi un giorno, davanti al soffritto giusto per la pasta buona con le vongole, arriva la telefonata che dice che le cose hanno preso la direzione che non vedi mai. La direzione che non vedi mai è una voce dell'altra parte del telefono che ha i toni bassi e la raucedine delle brutte notizie. E' lenta, incapace, sudata, ha una massa radio opaca di 2 centimetri nell'asse mediano delle vie biliari e ancora tanto fiato da spendere. Questo è quanto, il soffritto procede incurante sul fornello e non c'è bisogno di aggiungere altro. Questa è la vita che si muove di fianco, sordida, impalpabile, cristallina; o piuttosto quella di dentro, indipendente, cellulare, logica. In ogni caso meglio dell'altra, quella degli utili borghesi e le rette insolute a fine mese. Non venitemi a dire che la vita epidermica è più incoraggiante di quella di dentro, non venitemi a dire che là fuori è la vita. La vita è una cosa che non te la spieghi, con le favole che sanno di fregatura al primo incontro. Devo spingere con il Subbuteo, sognare e affondare sulla fascia come fossi un campione. Perché la vita è anche spingere e spingere e conquistare a fatica quella bastarda illusione di farcela.
Solo un attimo, scendo solo un attimo per un caffè, te lo prometto che ritorno. Non posso lasciarti un secondo che già ti metti a frignare e non la smetti mai di serrarmi la mano. Di cosa ti preoccupi? Di cosa hai paura? Guarda che ritorno, guarda che saranno in tutto 6 minuti, il tempo di scendere di sotto e sbattere la testa contro la macchinetta dell'ingresso. Il tempo che ci mette l'infermiera a fare il prelievo dei marker e a toglierti l'ago cannula dal braccio. La vita è anche questo, levarsi dai coglioni in tempo utile, uscire dal letto 14 del reparto di gastroenterologia e cozzare contro il seno prorompente dell'infermiera.
- Tutto bene?
No, niente è mai stato tanto lontano dallo stare bene come Oggi. Le scivolo di fianco con un sorriso, lei fa le fusa. E poi piango, dio sa quanto piango poggiato su quella panchina di cemento del Forlanini. E non sai che fatica il dover pensare alle scale, doverti ancora raggiungere. Ah, se avessi ancora la bmx e i miei prati di erba medica! Con quelli si che avrei potuto curarti, era tanto tempo fa e non c'erano ancora le scadenze. Quando faceva notte ce ne tornavamo a casa e il buio era un treno che non passava mai.
Mi senti?

mercoledì 21 aprile 2010

quando ero piccolo il maestro diceva sempre che ero nato libero

Oggi ci siamo incontrati in un bar del centro ed era una vita e mezzo che non lo facevamo: sederci allo stesso tavolo e ordinare un toast e un panino. Io mi sono seduto dal lato che dà sulla strada, che lo sai che mi piace assentarmi ogni tanto e curiosare tra la gente che passa. Tu questo mio modo di abbandonarti me lo hai sempre perdonato, ed è per questo che mi piace così tanto quando parli e poi parli e io mi sembro una suppellettile di cristallo sempre in bilico nella tua giornata. Ogni volta che cado faccio un sacco di rumore e tu sei la sola che riesce a rimettermi assieme, scovare i pezzetti nell'angolo e setacciarli dalla polvere. Incollarmi.

Mi chiedi perché ho lasciato il network e io guardo fuori la gente che passa. Eppure lo vedi anche tu che non c’è verso di capirci mai niente, che le persone ognuna c’ha la sua vita e va a finire che con tutte queste vite messe assieme non se ne fa mai una da sola. E’ difficile spiegare certe cose, le parole non arrivano quasi mai a destinazione e per ora ci si deve accontentare di un’intuizione.
Quando ero piccolo il maestro diceva sempre a mia madre che ero nato libero.

Si è come ci riesce di starcene al mondo, tra mal di testa e gente che s'incastra. Più spesso nella distruzione, nella gratificazione di una partenza che offre le più interessanti possibilità di impiego. Io questo non l’ho mai capito, e non troverai mai le mie parole giuste a ricordartelo: in questo ufficio di collocamento, viverti non mi è mai bastato.
Poi, di colpo, tu era già dall’altra parte della strada e io non avevo più nulla da stringere.

mi chiedi ancora perché me ne vado e non chiudo mai bene la porta quando lo faccio

Mi chiedi ancora perché me ne vado e non chiudo mai bene la porta quando lo faccio. Ti rispondo dalla quiete di questo spazio e ti dico che per me la discrezione è l’unico valore che conti. La fuga mi appartiene, e mi riesce bene abbandonare la festa quando tutto il mondo s’accomoda. E s’accomoda troppo. E s’accomoda spesso.
Sai perché le cose, le mie di cose, finiscono? Perché non finisce mai la giornata. Il tempo è greve là fuori, con tutto il suo carico di gente che non si da’ pace per somigliarsi un pochino; il tempo mi annoia. Poi arriva qualcuno, arriva sempre qualcuno che parla e che parla e che sembra non volersene mai andare. E mentre lo fanno, mi passa di fianco lo sguardo del mondo che immagino. E m’innamoro ogni volta perché quel mondo corre più forte, corre più a fondo, corre mentre faccio la fila alle poste e la gente mi parla e io non rispondo perché sono felice. Ma ecco, domandarsi che fine abbia fatto quel mondo non serve poi tanto se poi non c’è stato più il tempo d’immaginarselo. Perché adesso la gente mi scivola di fianco e io non provo più nessun bruciore quando mi tocca. Non la trovo. Non la immagino. Non la tocco. E se la gente mi sfuma alle spalle, io non voglio che sfumi anche tu. Io non lo voglio sabotare questo lampo d’immaginazione.
Ed è per questo che il resto non conta. Non conta più. Perché se ci mettiamo a guardare tutto quello che fa la gente là fuori, i conti col salumiere non tornano e figuriamoci tutto quello che dobbiamo ancora inventarci. La vita è tutto un pensare di parole che rimbalzano e si appiccicano come le palline da ping-pong sotto gli angoli del letto e noi sempre lì a cercare di rimetterle a posto, le palline. E a buttare via il tempo.

Noi non c’eravamo preparati per questo, noi non c'eravamo affatto. C’eravamo guardati di spalle contenti solo di non starcene al mondo. E allora è meglio che c'inventiamo qualcosa di diverso, qualcosa di complicato come i fili del telegrafo o magari la telescrivente semovibile di Creed. E’ meglio che ce ne stiamo al mondo come il carbonio o piuttosto come le colonne di cemento armato. Ecco, voglio prepararmi per questo: studiare la composizione chimica del cemento e sfruttarne le molteplici possibilità d'impiego.

Perché voglio pensarmi solido.
E questa volta per sempre.

martedì 13 aprile 2010

Parigi

Però io a Parigi ti ci voglio portare. Appena arrivati in cima ci prendiamo un caffè all’aeroporto e guardiamo gli aerei decollare dal vetro. Perché il momento più bello della questione è l’attimo che ci ha lasciati indolenti, muti, a improvvisare.
Il belvedere ci ha tolto il respiro e l’ha infilato di traverso nelle valigie, pressato tra dentifrici e camicie fresche di bucato. E adesso che tutto il mondo fa il check-in, io posso solo guardarti e guardarti, mentre mi parli e parli, e io non faccio resistenza. Perché l’amore m’è parso sempre lo scivolare tra le cose dell’altro e resistere alla tentazione di spostarle.

mercoledì 31 marzo 2010

Infilo la chiave nel portone ed entro nel freezer dei ricordi

Infilo la chiave nel portone ed entro nel freezer dei ricordi.
Guardo sulla sinistra la cassetta gialla della posta, e ci ritrovo tutta la corrispondenza che non ho mai assolto. Sommersa sotto centimetri di polvere, ci sei anche tu che te la ridi e te la spassi oltre il vetro sporco del tuo modo di vedere le cose.
Hai lasciato le pentole a screpolarsi in dispensa, tappi di sughero e bottiglie di vino a prendere d’aceto vicino ai fornelli. E sa di tappo tutto questo disordine, capodanno in ritardo e dolci secchi ad ammuffire in credenza.

giovedì 18 marzo 2010

sogno

Bastardi i sogni, figli legittimi della frustrazione.
L’altro giorno facevo il conto dei rumori di fondo e c’era un gran casino nel cervello che ho visto gli anni correre veloci appresso al primo brivido di pelle. Per ogni sogno che faccio ci saranno almeno sette alibi al giorno che mi parano il culo.
E allora pensa che scemo.

martedì 9 marzo 2010

solo i sogni sono veri

Dopo l’amore ho perso sempre, e un attimo dopo sono sempre stato in ritardo.
Dopo l’amore attaccavamo i sogni al soffitto e li guardavamo planare come petali sul cuscino. Oggi torno spesso alla manutenzione, passo la coppale sul legno e il trucco sta tutto nel non vederlo invecchiare. E sul parapendio c’è tanta di quella polvere e tu che torni come il bel tempo a spolverare.