mercoledì 30 giugno 2010

Non dirmelo mai che così va la vita

E’ tardi, gli imbianchini stanno per arrivare e gli impresari dell’ENEL hanno già fatto sapere che passeranno a giorni a contare gli scatti. Nuovi inquilini premono impazienti sul civico 24, mentre la giunta comunale ha inaugurato proprio ieri il nuovo piano di assetto stradale. Scendo di corsa le scalette di Via della Luna fino in fondo al muricciolo di mattoncini rossi, lo stesso lastrone di argilla rovente dove riprendevamo fiato dopo la scarpinata verso il centro, ricordi? Mi fermo proprio di fronte al portone, riprendo fiato, indietreggio. Mi guardo attorno come un ladro, guadagno tempo. Ho paura che qualcuno mi riconosca, ho paura che qualcuno venga a dirmi che non è ancora il momento, che qualche muratore mi passi nella mano la cazzuola e che mi indichi la crepa. Ho paura del restauro dei sentimenti, della betoniera incrostata che ingoia ogni pezzetto di vita che oramai puzza di vecchio. Ho solo paura di guardare le cose e di vederle crollare a pezzi.

E’ tardi, ma ho ancora due chiavi nelle tasche. Chiavi in metallo leggero, fatte fresare dodici anni prima nella ferramenta sotto casa in quell’afosa estate del ‘97. Tu le hai già consegnate, probabilmente liquidate con una formale stretta di mano, sbattute con diffidenza sul tavolo dei nostri zelanti affittuari. Forse già tentennano nelle tasche di qualche altro inquilino o forse sono rimaste incollate sul tavolo dell’ambulatorio, schiacciate sotto le carte logore della corrispondenza. Già me le vedo tra le mani dei nuovi affittuari infilarsi cigolose nella serratura, rifiutare l’incastro, incepparsi. Tutta questa inquietudine dovrei buttarla nel tombino comunale e lasciarla sedimentare assieme alla merda, penso; e invece sono ancora qui che doveva succedere prima o poi, che così va la vita e che bisogna imparare a chiudere un sacco di porte prima di comprendere il gioco.

Eppure me lo hanno insegnano sin da piccolo che bisogna stare attenti all’uomo nero, quell’uomo che non dice mai una parola e che se ti viene a trovare nel migliore dei giorni vuol dire che sei davvero fregato sul serio. Anche se non mi hanno mai incoraggiato, anche se col tempo ho imparato a non pensarci troppo, io ci penso spesso alla morte: lo faccio di nascosto, lontano da tutti e con la discrezione del gatto. Ho imparato presto a scivolare tra le cose, lo faccio così bene che quando passo alzo sempre un sacco di polvere.
Eppure questo pomeriggio di giugno non somiglia affatto a una fine, non c’è la camera buia e non ci sono nemmeno le nuvole che fanno l’umore gonfio; c’è invece un sole generoso che non ha la pretesa né tantomeno l’ambizione di scaldarmi di nuovo. Di nuovo era tanti anni prima quando al sole ci passavo tutti i pomeriggi e sull’erba del Tempietto ci s’innamorava in fretta.

Hai lasciato il nastro rosso della laurea ancora attaccato sulla porta e il dopobarba poggiato sulla mensola del bagno. Hai lasciato anche un po’ di polvere sul comodino e tracce del tuo passaggio in dispensa, c’ho passato un dito sopra e m’è rimasto attaccato il sudicio dell’ultima settimana. E che dire del mazzo di carte napoletane poggiate sul marmo del camino, come un conato mi sono tornate di colpo tutte le sere trascorse a passarci il carico con l’ammicco del giocatore consumato, manco fossimo ai tavolini sverniciati del Gran Bar. Di tutti quei fine settimana passati a contarci i punti, mi viene in mente quel dentro-fuori della finale al barretto di Sant’Anna, avevi tra le mani una Napoli a bastoni e gli occhi spalancati come quelli del Signor Quindicipalle. Eravamo complici in una partita a tressette, delatori di una mano a scopone, compagni in una sveltina a briscola. Non hai mai mollato una presa, non l’hai mai saputo fare: lasciare la partita, abbandonare il tavolo. Eri il contabile dei miei giorni migliori.

Le mie misure sono 12x12: dodici anni di convivenza coatta in una camera di dodici metri quadri di spazio. La mia vita è ancora tutta lì, aggrappata con le unghie su quattro pareti di forato radioattivo. Pareti fatiscenti, con le foto e le puntine multicolore che reggono ancora gli anni per miracolo.
Non è una fine questa, non le somiglia affatto. E’ piuttosto uno di quei giorni dove davanti allo specchio scambi il sapone con il detersivo per i piatti, dove il tappo del dentifricio s’incastra bene nel bocchettone del lavandino, dove non hai la minima idea di come hai parcheggiato l’auto la sera prima o di dove hai lasciato le sigarette, l’accendino, gli occhiali da sole o le chiavi di casa. E’ uno di quei giorni dove cammini in centro senza pensare alle scadenze di fine mese, uno di quei giorni in cui ti va di sorridere senza il bisogno di doverti dimostrare per forza qualcosa. Devo sbaraccare casa e non so come fare. Un giorno normale insomma, un giorno che ti cammina di fianco e che ti fa appena il solletico.

Hai lasciato l’ombrello a due passi dalla porta e non credevo proprio che potessi dimenticarti anche di lui. Me lo sono portato a casa che sembravo il Chisciotte di ritorno dai mulini a vento, lo stringevo forte sotto l’avambraccio e lo sai, le persone mi guardavano così strano che ho dovuto tagliare per le vie minori, schivare gli sguardi, passare oltre. Sarà stato per via del sole, o sarà stato perché le persone guardano con diffidenza tutto ciò che non le somiglia, ché tutto ciò che con la vita non pareggia i conti troppo spesso ci fa a cazzotti. Sta di fatto che ho bisticciato con un coglione che se la rideva a due passi dalle scale mobili, rotto il naso e spaccato la nocca del mignolo, ecco tutto. Io credo che le persone non sono abituate a tenersele strette, le cose. Io ho raccolto l’ombrello e imboccato di corsa il sottopassaggio. Passato oltre, ecco.

Hai lasciato le pentole a screpolarsi in credenza, tappi di sughero e bottiglie stappate a prendere d’aceto vicino ai fornelli. E sa di tappo tutto questo disordine, capodanno in anticipo o ultimo giorno di scuola. E che ci dicano pure che eravamo di troppo, che non avevamo più sapone da spargere per casa: se i nuovi inquilini avranno prodotti migliori, che ce la insegnino loro la metodica. E che ci bacino pure il culo.
Penso che hai sbagliato a staccare il contatore e a segnare gli scatti, ho consultato la bolletta e i conti non tornano proprio. Un po’ di cenere sul davanzale della cucina e già mi sembra di vedere che te la fumi fino in fondo la tua ultima cicca, che la respiri forte nei polmoni e la pressi giù per gli alveoli fino a ostruire le vene. Due minuti, appena due minuti prima di dire addio a quei dodici anni di vita condensata.
Appena due muniti prima.

Scemo è inutile che ti guardi attorno con quegli occhi lucidi di gatto, guarda che ho dovuto andarmene, HO DOVUTO, capito? Quindi non metterti a frignare lì sulla porta che non era ancora il momento e che adesso il Cinastik non è più lo stesso senza le mie pinte di rossa poggiate sul bancone, OK? Perché se ti guardi attorno lo vedi da te che anche senza di noi le cose restano comunque appiccicate al muro. Nemmeno l’amore è immune da certe imperfezioni, figuriamoci noi. Sai, a volte c’ho pensato, ho pensato a quanto è dura tenersela stretta, la polvere: quando sposti le cose hai sempre il sospetto di trovarci qualcosa di meglio che un batuffolo di capelli. E invece questo siamo, e allora accontentati di passarci pure lo straccio: almeno avrai il sollievo di tirare via lo sporco.
E’ così che vanno le cose, semplicemente cambiano residenza, numero civico, a volte padrone. E se non c’hai pensato in tutto questo tempo, beh, allora sono fatti tuoi. Io non posso farci più nulla perché così va la vita, perché così va la vita, perché così va la vita…

Ti odio, mentre piango e rido come uno scemo, io ti amo. Il mondo sorride perché il mondo là fuori vince sempre. Qui dentro il mondo non c’entra, qui dentro siamo come i cavalli che non lo sanno mai quand’è finita la corsa. E se poi i cavalli hanno vinto. O se magari hanno perso. Per sempre.
Almeno dimmi dov’è il riscatto, l’indennità di disoccupazione, quel pezzo di filigrana che s’incassa alla fine dei giochi. Dov’è la liquidazione? Quando le cose finiscono c’è sempre una parete bianca su cui vomitare quel po’ d’insolvenza, non riesco a capire. E mi domando dov’è che ho sbagliato, qual è stato il giorno e l’ora che non ho compreso, l’attimo di storia che mi ha visto perdente.
Giro per casa e mi appoggio al comodino, se ci frugo più dentro posso solo aspirare la polvere dell’Intercity. Eppure ci dev’essere da qualche parte un calzino, una roba sporca, qualcosa d’annusare. Ci dev’essere un pezzo di vita da qualche parte, c’è stata dappertutto e figuriamoci adesso che non ci sei. E allora corro, corro lungo il perimetro di 50 metri quadri di mattonelle grigie, corro rovistando in ogni angolo di spazio, corro sul riverbero dei passi che fracassano nella testa come fossero stecchini. Cerco un alibi alla mia solitudine, magari un carcere.

Chiudo la porta dietro di me, getto un ultimo sguardo sulle scale di marmo maculato del terzo piano e m’incammino, in discesa. Sono fuori, tra raggi di sole che bruciano gli occhi e scavano il nero delle tapparelle. La luce ora è così forte che non riesco nemmeno a contare i passi. Ma dammi solo un attimo di tempo e vedrai, monto sul primo treno e in meno di quattro ore sono già da te. Corro e ti abbraccio come non ho mai fatto, vengo a dirti che tutta questa distanza in fin dei conti non fa poi tutto il silenzio che resta. Vedrai che non è cambiato nulla, ché mica le cose cambiano così dall’oggi al domani. Poi mi dirai che sono troppo emotivo e proverai di nuovo a cacciarmi le lacrime dagli occhi. E proverai a convincermi che è sempre indispensabile perdersi. Che questa è la vita e che nonostante gli anni ha sempre bisogno di sentire il fischio del treno. Ma per favore non fare come tutti gli altri che così va la vita.
Non dirmelo mai che così va la vita.

venerdì 11 giugno 2010

Ayrton

Il primo maggio del novantaquattro io avevo diciannove anni e una ragazza con cui correre tutti i fine settimana. Il primo maggio del novantaquattro io la vita non potevo capirla perché certe cose scappano via di corsa e non bisogna pensarci troppo quando le cose corrono più forte di te. Se corrono più forte ci dev’essere un motivo e a diciannove anni non c’è ancora un buon motivo per fermarcisi a pensare.
Il primo maggio del novantaquattro c'era un gran silenzio e mia madre che mi abbracciava sulla banchina della stazione. Io quel giorno i sui occhi non li guardavo perché piangevano forte e una mamma che piange forte è un’altra cosa che non si racconta. C’era un gran silenzio perché la vita uno la scopre solo quando la trasmettono sui telegiornali, e allora ti prende quel coccolone che quando sei piccolo non lo puoi capire perché tutto il silenzio del mondo esiste solo nel perimetro del letto di un bambino che sogna. Poi quel silenzio cresce e col tempo accosta tutti i letti del mondo, le case, le famiglie, le situazioni, perché il dolore del mondo intero è la colla più forte. E allora il primo maggio del novantaquattro bastava sporgersi dal finestrino della Fiesta 1.2 per sentire dai terrazzi l’edizione straordinaria del Tg1.

Alle 14.17 di domenica primo maggio 1994, la Williams di Ayrton colpisce il muretto di cemento all'esterno della curva del Tamburello a una velocità di circa 200 km/h. Nel violento urto il lato destro della vettura è devastato, le due ruote, le ali, e i triangoli delle sospensioni, volano in aria come proiettili mentre la vettura rimbalza lenta verso il bordo pista.

Mamma dice che non è ancora finita, mamma dice che preparerà in fretta un bagno caldo e che ci si butterà dentro vestita. E dice anche che la corsa non sarà mai più la stessa se è vero che manca il campione. Io le chiedo che cos’è un campione e lei mi risponde che è qualcosa che si vive la tua vita migliore. Io le chiedo perché le cose finiscono e lei mi dice che le cose non finiscono mai se c’è qualcuno che se le sogna. Io dico a mamma se sognare è un po’ come crescere in fretta e lei mi dice di non mettere mai i piedi fuori dal letto. Poi butta indietro i capelli e mi asciuga le guance: ed è un’altra cosa che non si racconta, la gioia.

La Williams esaurisce la sua energia strisciando e impuntandosi nella fascia d'erba fino a fermarsi a pochi metri dall'asfalto. L'elicottero riprende impietoso la scena, il casco giallo di Ayrton è reclinato a destra, immobile, sotto il primo sole che brucia l’asfalto. Poi, per due volte, il pilota ha un riflesso incondizionato e si muove come per raddrizzarsi; ma è solo un lampo che dura pochissimo, i primi uomini del servizio raggiungono la monoposto e si rendono conto della situazione: il pilota non è cosciente, il casco è letteralmente zuppo di sangue. Ayrton viene estratto dall'auto e disteso sul cemento di fianco, il suo cuore batte ancora quando i medici operano una tracheotomia per liberare le vie respiratorie; sotto di lui, distesa sul cemento nuovo del Tamburello, si espande una macchia rossa inequivocabile.

Odore di primavera, odore di magnolia nelle sale d’aspetto fino in fondo all’ultimo vagone di terza classe. Odore di fresco, dappertutto. Io avevo appena fatto l’amore, io annusavo la vita e avevo le mutande umide e la patta ancora aperta sui calzoni. Io non lo potevo capire tutto quel silenzio, io non ero ancora fatto per il mondo e il mondo era una matrioska rossa da sbavare fino all’osso. Non ero l’uomo che faceva il lavoro, la famiglia, la storia. Per me la vita era il circuito di Indianapolis senza la curva del Tamburello e le curve erano parole che se le sbagli puoi sempre usare il bianchetto.

L'elicottero del servizio medico atterra sul rettilineo del Tamburello, Ayrton viene trasferito dal circuito di Imola all'ospedale di Bologna. Il mondo spera mentre il campione va’ ripetutamente in arresto cardiaco. I medici riescono a mantenere in attività il cuore fino al ricovero nella stanza 214 dell’ospedale Maggiore, ma è del tutto inutile. Il primo bollettino diramato è inappellabile, l'encefalogramma del pilota è completamente piatto, solo le macchine tengono il suo cuore in attività. Alle ore 18:40 Ayrton viene ufficialmente dichiarato morto.

Mamma, dimmelo ancora perché le cose la smettono di correre, ripetimelo fino all’alba e poi ancora fino a quando le cose non passeranno il Tamburello e saranno già troppo lontane. Come funziona quando si perde o si vince, se è il caso di esultare o se magari è questione d’incagli e si passa la vita nella pena di niente. Cosa ne faccio del mio carico di sogni, li potrò ancora scambiare al mercatino di Via delle Streghe o saranno già vuoti come vasi di terracotta? Forse le cose hanno fretta di andare a sbattere o forse è la strada che è piena di curve, non saprei dirti, mamma; me lo domando tutte le sere in quel perimetro di letto ma sono ancora qui che mi alleno a stringerle senza il gusto di acchiapparle. Perché le cose scappano via di corsa che persino tu ora ai fretta di spegnere la luce. Almeno dimmi se ti trovo sotto il cuscino o se oggi è già un pezzetto in meno che mi stringe la mano. E se mi racconti qualche bugia guarda che prima o poi lo capisco, ché un campione chiude gli occhi e lascia andare le cose anche quando tu piangi. Perché le cose non finiscono mai se c’è qualcuno che se le sogna.

- Mamma, che cos’è un campione?
- E’ qualcosa che si vive la tua vita migliore.

Dormi adesso che è tardi.

mercoledì 2 giugno 2010

l'aspirapolvere non si cura della vita poco più in là

Uso l’aspirapolvere di rado, lo uso con parsimonia perché c’ho sempre meno tempo di scovare le camole tra gli angoli del letto. Devo ammettere di aver passato gli ultimi tempi in un porcile di frequentazioni e ambienti poco areati, la polvere sul comodino, la polvere che mi segue come uno stronzo secco sulla scocca lucida del cesso. La polvere sul completo nuovo di mattina presto poi è una cosa che non si racconta. Un giorno mi sveglio tutto sudato e il prurito me lo sento addosso dappertutto, provo a farmi una doccia ma la cosa non funziona affatto. Allora passo in rassegna la rubrica e inizio a eliminare i contatti superflui; sto quindici minuti sulla M di Marco e trentotto sulla F di Francesca. Poco dopo sono già sulle scale che traffico con la vita degli altri, e la vita degli altri è una cosa che lustra avanti e indietro la tromba del condominio.

Buongiorno, mi fa. Salve, dico.
“Come va”? Va come un autotreno in sosta sulla Salerno-Reggio Calabria, dico. E passo via.

Il pensiero ha voglia di uscire di strada, il pensiero è ancora lucido quando affronta l’ultima rampa e si caccia di fuori. La luce è questo giorno che m’abbaia il faro in fondo alla strada, la luce sono i cani che pisciano sui lampioni e una lastra fotografica che m’impressiona nel mondo. Un ragno scappa e risale veloce il nervo ottico, dice che sono due mesi che non esco di casa. Poi incontro le vecchiette che mi salutano e che aspettano la visita dal dottore. Dicono che il sistema sanitario non funziona e che non funziona perché c’è d’aspettare troppo. Mi piace ascoltare le vecchiette quando passano in rassegna i vicoli, le persone, le cose. L’indiscrezione è il verme che premono sull’amo, Il gozzo teso in attesa del pasto. E oggi il pasto è il sindaco che sembra non cambiare il partito, ancora polvere e problemi sparsi sull’arredamento. Gli occhi non la smettono di correre e mi indicano un modo migliore di starsene al mondo: sapere di non essere solo.

Con i vecchi esco dallo studio e partiamo di corsa verso la strada. Sembriamo dei manufatti in avorio di una corsa campestre, suppellettili di marzapane del libro Cuore. Li frego tutti sugli anni e arrivo per primo in farmacia. Qui ho un attimo di blocco perché le farmacie in generale mi provocano il singhiozzo del dilettante, sterili e asettiche come il culo di un neonato cosparso di Amuchina®. Ordino una confezione di Moment e questa volta me la cavo con poco, solo un mal di testa per la notte passata, tutto qui. Torno a casa e affronto le scale fino all’ultimo piano. La vita degli altri è ancora lì sulle scale, e forse le domando com’è che è andata.

E come vuoi che vada… pulivo le scale, non mi sono mossa di qui. Poi, con un colpo di tosse, mi spinge dentro.

Poggio il Moment sul comodino e accendo l’aspirapolvere; mi accomodo sul divano, lo lascio andare per ore. Mi piace sentire il rumore che copre la vita.