giovedì 12 novembre 2009

tango

Inquadratura dal basso, bandoneon e seggiole di legno. Qualche avventore in sala e un paio di occhi vigili che bivaccano su una pelle bianca quanto un cartone di latte in scadenza. Lei si alza, di scatto, getta i suoi umori nella sala e si dirige con superbia verso il centro pista. Parte la Cumparsita, e poco dopo del mondo non resta che un pacco semi-chiuso, un refuso tagliato via, un cappotto abbandonato in lavanderia e lasciato ad ammuffire per chissà quanto tempo, altrove, in giacenza. E mentre la guardo, e mentre tutti la guardano, penso che non ho mai indossato un paio di scarpe così lucide da meritarmi uno spettacolo del genere. L’eleganza di una donna sta nelle caviglie: sottili, nervose, fragili. Tirate a lucido col grasso dei cavalli da corsa.

sabato 7 novembre 2009

at last

Affondi il mento sulla spalla destra mentre la linea del collo ricama con cura il chiaroscuro della stanza. Mi stai dicendo che da domani sarà tutto diverso e che soprattutto ogni cosa sarà tornata al suo posto, altrove, in un universo fatto di fogli sparsi e matite spuntate. Non hai più stretta per soffocarmi, e d’altra parte un universo non esiste se tutte le volte ce lo dobbiamo inventare. Me lo comunichi col gelo delle tue lacrime, che battono calde sulla mia pelle sudata. Sudata come un fiume che scorre rapido dalle palpebre al pavimento. Sudata di te, di noi, della nostra convalescenza. Che se vorrò cercare, domani, dovrò allungare le mani fino a sentire i muscoli strappare le cartilagini.
Ma ecco, sei ancora qui, poggiata sulla mia spalla, hai gli occhi caldi e il seno duro e i brividi che socchiudono le palpebre, e se non fosse per quel treno in partenza e per la fila che ci attende al binario due, ti avrei già sbattuta sul divano fino a farti implorare un accelerato ritorno.
E invece è con la dovuta calma che ce ne stiamo andiamo. Siamo qui, poggiati in casa, in bilico tra un caffè e una limonata. Con questa assurda musica che ci inzuppa e ci ricaccia dal mondo come fossimo una lenza lanciata a mare.
Il fatto è che non ci graffia lo spiglolo di un quarto d’ora né tantomeno il fischio riverberato del capostazione. Il fatto è che balliamo, e il mondo ai margini non c’interessa.
Anzi, ci aspetta.

giovedì 29 ottobre 2009

lilac wine

Lo prendo quel treno, cambio a Firenze Santa Maria Novella, mi accendo una sigaretta sulla banchina sudicia della sala d'aspetto e poi tutta una tirata fino allla Centrale di Parma. Scendo, prendo l'autobus, suono il campanello, mi spoglio, ti caccio la lingua in bocca e facciamo l'amore fino a confondere i gemiti con le imprecazioni assonnate della nettezza urbana. Mi rivesto, faccio 334 chilometri a ritroso e parcheggio il treno sotto casa, in divieto di sosta.
Sogni d'oro, mon amour.

domenica 27 settembre 2009

cronache di un sabato sera

Solo. Solo mentre il mondo affronta il sabato sera con il vestito migliore e le persone trovano il coraggio di uscire di casa stirando le marce verso la tangenziale.
Eccoli, stipati in fila indiana come carne da macello davanti ai registratori di cassa; posso sentire ansimare e battere forte di tacchi, posso sentire il rumore del fiato rotto dalle scalette del centro, lo scalpiccio sui sampietrini sdruccioli del corso, le risa scomposte e i clacson stonati della terza fila. Da qui, io posso anche sentirli imprecare.

Solo. Solo mentre i subwoofer pompano i bassi ai quattro angoli della città disseminando indifferenza nel mio circolo sanguigno. Solo mentre stringo forte tra le dita l’ultima sigaretta della giornata, solo mentre la consumo, solo mentre la guardo bruciare, mentre la vedo accendersi sul cemento lucido dell’asfalto e rotolare veloce lungo il canale di scolo del guardrail. Incollata allo specchietto retrovisore.

Solo. Solo mentre c’è chi affronta il Grande Raccordo e chi a quest’ora ha già infilato il casello dell’autostrada buttando dal finestrino i resti di una settimana passata a lucidare la scocca del proprio ego. Solo con le mie certezze diroccate, solo nel silenzio del loro assedio, solo mentre la municipale multa un giovane in divieto di sosta proprio sotto il portone dove ho speso il mio tempo migliore, in attesa di un riscontro. E si che poi l’ho avuta la tua attenzione. E l’ho spremuta come arance nel bicchiere dopo giorni di convalescenza.

Solo, solo mentre tento il sorpasso sulla corsia preferenziale, solo mentre osservo i lampeggianti nello specchietto retrovisore comunicarmi la mia inadeguatezza, solo mentre presso la cicca contro il cruscotto della mia Clio 1.2 azzurra metallizzata come il cielo.
E ho finito per colorare d’azzurro il nero dei tuoi occhi, e ho finito per ubriacarmi delle tue parole fino all’astinenza. Per niente stanco, ho affidato il nostro amore al postino affinché suonasse tutte le mattine il tuo campanello.
- Scusa Amore, non ti sembra di correre troppo?

In ogni caso, solo. Solo mentre gli autogrill scivolano via sulla destra, solo mentre le piazzole di sosta fanno a botte con le gite della mia adolescenza, solo mentre disinvolta mi passi una mano sulla cerniera dei pantaloni comunicandomi i propositi del dopo cena.
Solo nella mattina del mio compleanno, solo nella sera di natale, solo nei giorni di festa. Solo nell’ottusa solitudine dei miei angoli di rabbia.
E ho finito di credere ai tramonti di Turner, alle gite di fine settimana coi bambini a rotolarsi sui campi di erba medica.
- Scusa Amore, la porto su io la lettiera del gatto?

Solo. Solo mentre faccio le scale a due a due per non darti l’alibi di attaccare bottone, solo mentre spingo l’interruttore della luce, solo mentre riprendo fiato sul pianerottolo del terzo piano, mentre giro la chiave nella toppa e un attimo dopo sto già annusando l’aria consumata dell’appartamento. Solo mentre calpesto il tappeto persiano e tento la mimesi tra le suppellettili dell’ingresso.
- Amore, ti ho comprato lo spazzolino nuovo... mi senti Amore? E’ in bagno sul portaoggetti, vicino alla mensola...

A volte solo, mentre avanzo lentamente verso il salotto. Getto il cappotto sul divano, mi levo la giacca, slaccio la cravatta; affogo tutti i pensieri nel vortice dello sciacquone. E ho finito per credere che i pagliacci si concedono il lusso del pianto al termine dello spettacolo; che i pittori rimangono svegli sino all’alba, in attesa della luce migliore.
- Amore scusami, ma non vieni a letto? Guarda che ti aspetto...

Solo, solo nel riflesso della mia faccia bianca sullo specchio del bagno. Solo mentre lo spazzolino lavora di fino lungo l’arcata dei miei trentadue. Solo mentre massaggio con cura la mia virilità preparandomi ad un incontro che stanotte affronterò sulla destra, dalla parte formale del letto.
Formale, come i baci che intercetto lungo i nostri corpi freddi, a intervalli regolari. E il nostro orgasmo è solo un treno puntuale nella sala d’attesa di una stazione di provincia.
E ho finito di credere che la spalliera è solo una protesi del nostro matrimonio, che tutte le molle del letto hanno fissato lo smalto antiruggine per carenza di sollecitazioni, che su quel materasso senza macchie ci si può anche danzare, all’occorrenza, nei giorni di festa.
- Scusami Amore, ma adesso ho proprio sonno...

Solo, solo nel buio della camera da letto, solo dal silenzio dell’appartamento.
Vuoto. Deserto. Attesa.
E il crivellare ottuso delle tarme.

PS: - ...ricordati di mettere la sveglia, Amore.

mercoledì 16 settembre 2009

marmore

Ai piedi dell’Appennino reatino, poco dopo il paesino di Marmore, lungo la statale di Moggio e poco prima della galleria di Montelungo, c’è un piccolo chiostro con dentro una ragazza in grembiule che serve il caffè. Ha i capelli castano scuro raccolti in chignon, ombretto verde-acqua sulle palpebre e niente fondotinta a mascherare la sua carne pallida.
Mi accoglie con un sorriso celibe e m’invita al bancone, spolverando con un rapido movimento del braccio ogni piccolo granello di zucchero che ostacola il nostro campo d’azione. Denota anni di apprendistato quel movimento rapido e per nulla calcolato. E io lo annuso. E lei lo sa.
- Un caffè, grazie.
- Corretto?
- No, grazie.
- Eppure me lo immaginavo corretto...
- Ti è andata male, stavolta.
La osservo, mentre traffica con le prese metalliche della caffettiera. E’ voltata, di spalle, la canottiera azzurra che lascia scoperto il fondo schiena, la canottiera azzurra che fa a botte con il verde delle mattonelle, la canottiera che s’impiglia nello spigolo del frigo e tira forte dall’altra parte, al di là del bancone. Delinea il contorno delle scapole, e il contorno delle scapole mi acceca gli occhi, si butta in strada, percorre cinquecento chilometri, parcheggia sotto casa, fruga nel cassetto e lucida i ricordi, torna indietro e atterra nuovamente sul bancone. Si inzuppa nella ceramica del caffé e schizza il nero dai miei pensieri.
Fuori, sul bancone.
- Scusami...
- Non preoccuparti, ci sono abituata.
- Non dovresti esserlo.
- E invece si. Che altro ancora?

Mi rimetto in moto, ho ancora settantacinque chilometri da fare. La radio comunica bel tempo e prospettive rosee per i nati sotto il segno del Toro. Mi aspetta un matrimonio e qualche amico da ritrovare. Forse una prima colazione. Un numero telefonico da fare a pezzetti piccoli piccoli e un sorriso da buttare in corsa dal finestrino.
E poi ognuno per la sua strada e che non se ne parli mai più.

domenica 13 settembre 2009

il tuo stile

Il tuo stile è una resina incollata all’inguine, un umore scavato nell’interno coscia e un dolore rappreso fino ai tendini delle tue caviglie. Ciò che non possiedo non mi tange, se non fosse per la rincorsa dei miei giorni verso la punta stondata del tuo alluce destro. Incarnito.
Il tuo stile sta nella tua dipartita. E’ spalmato sul litorale destro della mia schiena diritta come fosse balsamo.
E ti mordi le labbra in silenzio senza il bisogno di rivincita.
L’amore, è uno stile libero.

giovedì 10 settembre 2009

un addio

Guardo le lancette affondare il colpo e mi chiedo se è giusto disertare la tua presenza. E ho pensato che sarebbe stato un peccato non rincorrerti fino all'ultima traversa del corso, proprio lì dove lo spartitraffico violenta la linea retta dei tuoi pensieri. Fino alla fine dell'angolo.
E mentre eravamo impegnati nella traversata dell'Atlantico, milioni di sguardi ci solleticavano addosso e ti solleticava anche l'inverno e io non potevo farci nulla.

martedì 8 settembre 2009

il peso di un bacio

Il peso di un bacio. Lo sforzo di un angolo di bocca per sollevare il peso di un trasloco. C'è spazio anche per te nel cassetto dei ricordi, basta non spingere troppo. Angoli di cameretta dove rincorrersi e armadi saturi di naftalina dove nascondersi. Un giorno mi hai detto: "Ti amo perché sai prenderti cura delle mie labbra". Eppure, tra tutti quei baci che non mi hai mai dato, nemmeno un soffio di tramontana contro cui sbatterci la testa. Sulle tue labbra screpolate, nemmeno un angolo di strada dove vomitare il nostro passato. Prossimo.

giovedì 13 agosto 2009

il retino di Ostia (fine di un amore)

Sfioro la guancia con il palmo della mano destra e con gli aculei delle unghie mangiate ne rigo con cura la pelle. Lo faccio appena due minuti prima della partenza, tanto per darti ancora un buon motivo per continuare a cercarmi. Lo sai che non ho mai sopportato le scadenze, soprattutto quelle imposte, quelle che ti colgono in costante debito d’ossigeno, manco fossero bollette del metano. Vesto i consueti panni del disoccupato, impreco con forza la liquidazione, mi muovo con approssimazione bestemmiandoti contro quei ventiquattro minuti di pausa pranzo che oggi sono stato costretto a concederti.
Non ho più bisogno di dedicarti altro tempo, scapicollarmi come un forsennato in perenne recupero su quei cinque minuti di ritardo. Eppure eccomi qui, incastrato nel traffico dei giorni feriali: vengo a dirti che è finita, vengo a onorare il modesto traguardo dei nostri affetti nell’impersonale ecosistema ferroviario.
La stazione resta pur sempre il miglior luogo per farla finita: ci sono orari stampati su biglietti chilometrici che sanno bene come tirarti fuori dall’imbarazzo di una perdita. E’ un carico d’indifferenza che non riesci a gestire per mancanza di tempo, un epilogo marcato dalla voce invadente dello speaker che comunica a intervalli regolari: “è in partenza sul binario...”. E’ una voce molesta. E una voce puntuale. Come se qualcuno se ne stesse nascosto da qualche parte sotto il colonnato a notificare la fine della tua, di storia.
Le persone ti osservano, le persone nutrono un certo interesse per il corto circuito dei fatti altrui. E tutti i binari di questo mondo non aggiungono poi molto alla destinazione di questa storia. In fondo, per quel che ci resta, un treno vale l’altro. Ed è inutile dilungarsi oltre i convenevoli del congedo quando sappiamo bene tutti e due che puntualmente, o più o meno in ritardo, il nostro treno partirà comunque in giornata.
Stento, nel bisogno di aggrapparmi forte al tessuto connettivo delle tue certezze. Ho studiato con cura ogni parte del tuo corpo, rivoltato e concimato ogni singola emozione. Ma le certezze di cui parlo adesso, le stesse certezze che vedo ora inciampare tra i passi svelti dei pendolari di ritorno, sono un baco che fa la spola tra la polpa e la scorza, un movimento di vita pregresso che non ha più crepe di cielo da riservarmi. Tra poco verranno i vermi a scavare in quell’ultimo angolo di verginità che riservavo alla prudenza dei nostri giorni, e solo allora saprò - con ributtante evidenza - di non avere più polpa da destinarmi.
Siamo alla frutta, amore mio: ce lo dicono i vermi.

Nel trambusto dei cavalloni che atterrano stanchi morti sulla spiaggia di Ostia, ci ritrovo appena due telline e qualche tracina da disincagliare. L’ultima volta che ho stretto le tue mani è stata in quella notte di ferragosto sul litorale laziale, in quello stabilimento a pochi passi dall’idroscalo. Per sapere cosa volesse dire pescare usavo un retino dalle maglie grosse, lo stesso che ai mercati generali mi avevano indicato come setaccio per le vongole più veraci. Separavo il mare dalla sabbia, muovendomi in anticipo sulla marea.
Impigliata tra le maglie della rete metallica, proprio al di sotto della molla del bocchettone, c’ho trovato anche te, aggrappata come un polpo alla ferraglia arrugginita del tuo mondo sommerso. Non ho sostato nemmeno un giorno tra i fondali sabbiosi delle tue certezze; ti ho estratta dal mucchio con la carne ancora fresca, intatta, le caviglie incrostate di salsedine e i capelli ancora intrecciati nell’alga. Non ti ho destinata ai banchi del mercato, né al freddo siderale del surgelatore di famiglia: ma ti ho lasciata nel retino per darti il tempo di marcire in fretta, assieme ai pesci migliori.

Le certezze hanno la consistenza della polvere condensata tra le intercapedini del naso, il moccio pesante del calcestruzzo di quando imbianchi le pareti livide del tuo monolocale. L’unica certezza che mi rimbocca ancora le coperte è lo sguardo di mio padre due minuti prima dell’infarto, l’unica partenza che mi ha reso propriamente libero e capace di aprire le imposte senza opporre resistenza al peso di una perdita. La stessa certezza che tra poco ci smisterà come pacchi da crociera nel frenetico via vai della planimetria ferroviaria, che è poi la topologia di una perdita. Strane certe associazioni d’idee, certe coincidenze e modi di intercettare le cose, non trovi?
Mi ricordo del molo di Villa Clerici, di quando siamo partiti con il primo bus del Cotral e siamo rimasti per due giorni a fare l’amore nella pineta di Lavinio. Allora ero io lo stronzo che schifava la stabilità degli affetti, l’uomo da conquistare e da convincere con la caparbia sicurezza dei tuoi baci.
- Facciamo presto - dicevi, frugando nella cassetta della pesca.
- Dai che stanotte c’è la luna giusta! Prendi il retino...
E prendevo il retino, e lo ripulivo con la cura di una levatrice.
- Dai che stanotte andiamo a pescare i gronchi giù al molo!

Chissà perché è solo nell’inizio e nella fine delle cose che sappiamo collocare nitidamente un’emozione. Io per esempio mi ricordo solo adesso del retino di Ostia e dei giorni trascorsi sul litorale laziale nell’estate del nostro incontro. A distanza di anni mi ritrovo a frugare in un retino di metallo corroso per recuperare appena un frammento di quel giorno. E nonostante tutta la bellezza di quel principio, gli album fotografici e i ricordi da rispolverare come fossero istantanee del giorno dopo, incrociare gli occhi severi del controllore e impattare con lo sguardo in fondo, oltre la fine della banchina.
E’ nel contorno delle cose che ci si perde.

Mi guarderò attorno come un fuggitivo e cercherò una via di fuga nel vapore diffuso del metrò. Ti lascerò sola ad aspettare il tassì in Piazza Esedra senza più domandarmi cosa ne sarà di noi o quale mano sudata frugherà mai tra le nostre cose. Le persone che partono hanno un perdita da occultare, un omicidio preventivato da nascondere nel doppio fondo della valigia. La felicità è un oggetto da occultare, un pezzo di comprensione da deportare lontano, altrove da tutto ma soprattutto da noi stessi; e io vorrei dirti che ho smesso da un bel pezzo di fare il becchino.
Acquisto due biglietti all’edicola del Cambio e ti lascio sola a sfogliare il giornale. Sosto solo un attimo sotto gli orari delle partenze per lasciarti appena l’imbarazzo di una perdita. Strizzo l’occhio al mestiere del controllore, butto la cicca nel portaombrelli della prima classe. Gli orari dei treni sono poco più che numeri da giocarsi all’enalotto, il tabellone di Roma Termini poco più di un cruciverba da riempire con il vuoto dei progetti. Ti lascio sola a grattare lo scorrimano del binario 22 mentre monti sul primo treno dimenticandoti di obliterare. E ti sfioro con la coda dell’occhio, un attimo prima del fischio.
Vedrai, farò un buon lavoro di noi.

Non guardami ora con quegli occhi e non provare nemmeno per un istante a buttarmi le braccia al collo. Ti prego, non provarci mai più.
Sto truffando il sogno per pochi spiccioli di tempo libero, possibile che non lo vedi? Ti regalo il biglietto migliore, un posto in prima classe lontano dal fetore del vagone merci. Investo gli ultimi soldi nel banco prova del nostro amore e l’obiettivo è sempre lo stesso: spedirti il più possibile lontano, al riparo dai sensi di colpa.
Che ingenua che sei, confondere l’amore con l’elemosina dei giorni... Non lo vedi che ti tiro per il collo, che costringo le tue aspettative sull’oro colato dei miei buoni propositi, che t’invito nella dimora dei miei affetti con il cruccio di esibirti all’impietosa critica dei parenti, non lo vedi? Pensi che basti conquistarsi il sorriso della suocera per poter camminare spedita su quei quattro centimetri del mio prato inglese? Il diritto di calpestare i miei giorni migliori e di penetrare nella mia vita con l’ingombro di un caterpillar, nessuno te l’ha dato: la tua carne è così bianca che potrei imbrattarla con l’unghia sporca della mano destra.
E non riesci nemmeno a leggere un segno di inadeguatezza sul mio viso, sui quei quattro silenzi ormai stanchi di procurarsi un alibi. Piuttosto ricordati di ieri, di come serravo il cappio attorno all’amo. E non scordartelo mai più.

La mia è solo un’obiezione di coscienza di fronte alla morte, spicciolo volontariato nel deserto arido delle partenze. E la nostra, di partenza, non aggiunge poi molto al bilancio dei giorni. In fondo, chi vuoi che se ne freghi di noi? Piuttosto spiegami come intendevi procedere nella manodopera degli affetti, in tutta quell’amabile familiarità che manipolavo per poco più di due paste nelle domeniche pomeriggio a pranzo dai tuoi. E dopo avermi messo all’ingrasso come un vitello da destinare ai fasti di Pasqua, dopo aver condiviso il sudore e l’amarezza di questo giorno di afa, spiegami dove trovi il coraggio per dirmi: “a presto, amore mio...”.
Per quanto mi riguarda, ho solo paura di non essere più in grado di mollare la presa, di aver compresso la tua gioia come un articolo sportivo nel codice a barre della mia identità. Le certezze sono caccole che fai fatica a strapparti di dosso, copioso sudore stratificato sulla maglietta dei tuoi giorni migliori. E oggi, per la seconda volta, sento tutta la comprensione di quell’incontro, tutta la complicità che non ho mai assolto, completa, puntuale.
Odore guasto del nostro amore.

E adesso che tutto tace e che mi ritrovo qui a guardare il treno inoltrarsi oltre i muri fradici della stazione centrale, penso che tutta la mia vita non è stata altro che un indugiare oltre il semaforo rosso di una partenza, in pochi sbuffi di vapore e in qualche centimetro di addio.
Guardami, sono qui, immobile, sotto l’ora esatta del binario, a pochi passi dall’obliteratrice meccanica. Guardami adesso, mentre mi frugo nelle tasche, ora che non so più come trattenere le unghie e mi accendo una sigaretta con la calcolata sicurezza di chi è abituato a guardarsi da lontano, manco fosse da sempre sotto il grandangolo della macchina da presa. E muoviti perdio, guardami ora, guarda come tentennano queste gambe, non vedi che la sigaretta trema, la testa oscilla, la schiena è piegata, non vedi che le lacrime si separano per filtrazione, il sale è cristallizzato sugli zigomi e l’acqua sparpagliata sui binari? Non vedi che non trovo più le chiavi della macchina, che le cerco dappertutto e non le trovo perdio, che urto contro i pendolari di ritorno dalla zona industriale, contro il passeggino della mamma, contro il tossico che chiede gli spicci sotto i portici delle sale d’aspetto, contro gli sguardi indiscreti delle adolescenti e quelli interrogativi dei direttori di filiale, contro le puttane che fanno la spola tra Roma Termini e la Tiburtina, contro gli studenti di ritorno dalle vacanze estive, contro il vociare rauco del robivecchi e quello della vecchietta con la busta della spesa, contro il ringhiare dei pastori tedeschi della guardia di finanza che mi annusano il culo, contro il cinismo del metrò e la superficialità degli spazi aperti, contro l’attraversamento delle strisce pedonali e contro il clacson dell’automobile che avverto nitidamente un attimo prima dell’urto.

E adesso che corro a sirene spiegate verso il policlinico, adesso che tutto il mondo si mette da parte lasciandoci il passo, il telefono poggiato sul manicotto della barella squilla a vuoto, violentando gli ultimi istanti di questa storia. Non riesco a muovere il braccio, non posso nemmeno allungare la mano per sfiorare con l’unghia il tasto verde della rubrica telefonica. Vorrei trovare la tua mano, stringerla, premere con i polpastrelli sul palmo della tua mano destra, sentirmi in diritto di non mollare mai più la presa. Non è così che doveva andare, amore mio. Non era così che me l’ero immaginata.
L’infermiere non sa che fare, mi guarda con la comprensione di chi ha capito. Ha le mani impegnate sul respiratore e gli occhi lucidi di chi non sa controllare un’emozione. Forse risponderà prima o poi, se riuscirà a trovare il coraggio di staccare la mano dalla cannula rossa della flebo. E’ un novizio del pronto soccorso, uno specializzando in medicina generale capitato per caso tra gli orari scomodi del turno di notte. Già me lo vedo col camicie bianco dell’ambulatorio prescrivere antibiotici ai vecchietti di paese: “Si riguardi, mi raccomando... Grazie dottò! Saluti a casa!”. I nostri sguardi s’incontrano tra una buca e l’altra del manto stradale nell’imbarazzante silenzio dell’abitacolo; inarca le sopracciglia, trema la sua presa sulla superficie del tampone, sbaglia nell’applicare le ventose della rianimazione cardiopolmonare (RCP). E’ il dolore degli altri che è imbarazzante: e il novizio di turno me lo comunica con tutto l’impaccio del suo prodigarsi. La verità è che non vediamo l’ora di toglierci gli occhi di dosso.
La sirena abbaia ai passanti, il galleggiante del respiratore s’immerge come un grissino sotto la spinta pneumatica delle contrazioni. Volgo lo sguardo sul battiscopa grigio dell’ospedale, non sento più il bisogno di aggiungere altro. E’ andata come doveva andare, come non te l’aspetti.
E ci scappa pure un sorriso.

Restiamo soli, avvolti nel silenzio ovattato del reparto. Ci portano via.
Scivoliamo lungo corridoi impregnati di formalina e soffitti al neon che producono appena una fievole luce bluastra, discreta, impersonale. Torno a sguazzare nel tuo mondo, torno in quell’acquario ordinato di pesciolini rossi e conchiglie semisommerse che mi avevi con tanta dedizione promesso. Mi muovo come un pesce su fondali che conosco a memoria, non ho più paura di avventurarmi come un polipo nel buio pesto delle insenature. Non sento più il dolore, il dolore ha cessato le sue repentine incursioni sulla tempia destra, le gambe sono immobili e il cuore ha smesso di allenarsi con il contatto della tua epidermide da almeno 15 minuti. Ed è la prima volta che mi succede da quando ti conosco.
E mentre l’odore acre del fenolo irrompe come una brezza nella saletta sterile del pronto soccorso, l’Inter vince il suo diciassettesimo scudetto, la crisi economica si aggrava, le Borse toccano i minimi storici, il petrolio schizza a 300 dollari al barile trasformando le pompe di benzina in gioiellerie, il ministro Gelmini chiude l'anno scolastico bocciando tutti d'ufficio per cattiva condotta, si celebrano le elezioni europee, il Pdl conquista il 35,26% dei consensi, il Pd il 23,13, Lega Nord 10,20, IdV 8, Unione di Centro 6,51, Lista Pannella-Bonino 2, 60, impazza Puttanopoli, le farmacie sono assediate dalle insistenti richieste di Viagra®, La Pfizer è costretta ad aumentare la produzione, la famiglia Letizia chiede il permesso di partecipare all’ottava edizione dell’Isola dei Famosi, una scossa di 5.8 gradi della scala Richter rade al suolo l’Aquila, muore Michael Jackson, la Lazio vince la Supercoppa Italiana, l’Italia ospita il G8 nella tendopoli di Coppito, Teheran è sotto assedio da settimane, dimostranti in attesa di risposte rivendicano elezioni democratiche e le pagano col sangue, le Ronde del nuovo ventennio acquisiscono statuto giuridico dal Parlamento Italiano e dal Senato della Repubblica, in Europa avanza il nazionalismo, passa il Ddl sicurezza, nella Russia di Putin Anna Politkovskaja e Anastasia Baburova vengono barbaramente assassinate, 5 operai della Innse si barricano con i propri diritti su una gru elettrica a 6 metri di altezza e a 40 gradi d’indifferenza, è l’estate del 2009 e l’Italia come ogni anno si concede il relax dai buoni propositi, spalmata come grumi di maionese sulle spiagge dei litorali nazionali, cinica e passionale, ma con il sacrosanto alibi delle ferie posticipate. La coscienza va in ferie anche quest’anno, mentre gli italiani arrancano lungo le file chilometriche dei caselli autostradali.
Alla radio impazza “Non riesco a farti innamorare” del neomelodico Sal Da Vinci.

La mano prova a spingersi un po’ più in là, prova a inoltrarsi oltre la coltre di barellieri e medici che discutono sulla 96esima estrazione del Superenalotto. La mano trema. La mano prova a cercarti. Cade penzolante sul lato destro, disegna maldestra il perimetro longitudinale delle mattonelle, si diverte con i contorni delle cose, guadagna tempo. Gli occhi scivolano veloci lungo le facce bianche degli infermieri di reparto che, appena giunti sulla soglia del pronto soccorso, risolvono l’ingombro della tua presenza con un formale: “attenda...”. Il cigolio della porta sbattuta ricaccia la tua voce fuori, altrove, lontano anni luce dal mio dito indice e dalla presa molesta del tuo pollice destro. Emarginati. Internati come profughi lungo i muri deserti della sala d’aspetto.
Non potrai mai più tentare la presa, adoperarti con lo stesso zelo di certe passioni. Le tue mani sono ricoperte di sangue rappreso sull’asfalto di via Palmiro Togliatti, pezzi di meccanica sono sparsi come bossoli sulle strisce pedonali di Via Chiovenda a rinnovarti, come una preghiera, l’esatto punto di rottura.
E non potrai più nemmeno morderti le labbra, guardarmi parcheggiare in divieto di sosta sotto il marciapiede della tua finestra. Ma laverai via lo sporco, graffiando con cura l’asfalto.

venerdì 7 agosto 2009

Pasolini

Ed è così tanto che non parliamo un po'. Ieri ero ad Ostia, dall'"Elvira", a due passi dall'idroscalo. Sono passato a trovarti. C'era il sole, un po' di erba bruciata e due pisciacani che ti facevano la guardia. Poco più in là, oltre la rete metallica del campetto, due ragazzini giocavano a pallone. "Aho!! Ma nun ce vedi?! E' goal!!", gridavano i tuoi ragazzi di vita. Mi sono messo a giocare con loro, di tanto in tanto buttavo l'occhio vicino alla recensione, proprio lì dove ti abbiamo lasciato, a due passi dal cemento duro della statale. Sono ancora forti i tuoi ragazzi, hanno ancora l'avversione per le buone maniere e la faccia brufolosa di Ninetto Davoli sul set del "Porcile". La stessa faccia tosta di chi è abituato a prenderle di santa ragione, ma che sa anche cogliere l'occasione giusta per darle, all'occorrenza. Tutto sommato non c'è stata partita: hanno accoppato anche me.
Ho rimesso in moto e lavato le lacrime dal cruscotto, Pierpa'.

mercoledì 5 agosto 2009

i can't take my eyes off you

Non guardami ora con quegli occhi e non provare nemmeno per un istante a buttarmi le braccia al collo. Ti prego, non provarci mai più. Non lo vedi che che la pelle si screpola, che le braccia hanno gli aculei taglienti di un'emozione, che il contatto delle tue attenzioni lascia l'alone rosso dell'irritazione, non lo vedi? Sto truffando il tuo sogno per pochi spiccioli di tempo libero, possibile che non lo vedi? Ti regalo il biglietto migliore, un posto in prima classe lontano dal fetore del vagone merci. Investo gli ultimi risparmi nel banco prova del nostro amore e l’obiettivo è sempre lo stesso: spedirti il più possibile lontano, al riparo dai sensi di colpa. Ho graffiato i tuoi giorni migliori e li ho visti colare sulla porta a vetri della mia camera da letto... e nonostante tutto, non avere ancora il coraggio di uscire fuori e di mischiarmi alla pioggia.
I can't take my eyes off you.

martedì 14 luglio 2009

lettere

Lettere. Sparse come grandine a imbiancare i giorni che passano. Avverbi e sostantivi sgrammaticati per l’emozione, aggettivi acquistati per due soldi al grande circo di Porta Portese. E poi quell’ultima lettera che non hai mai scritto, un attimo prima della congestione: “Ti amo perché sai inciampare nelle emozioni”. Lettere.

mercoledì 8 luglio 2009

Tenco

Palude nera in fondo ai tuoi occhi, malinconia latente che sfiora il bavero e lo lascia liscio, appena stirato, immune dall’umido dei giorni. Prossimità di un incontro e palese fuga dinanzi al ritorno: cecità. Tanto mi resta.
Che vita facevi, che vita sopportavi, e che pensieri moderni comprimevi in quell’angolo di sogno, non ha più importanza oramai. Non faccio più caso al peso delle domande morte.
Il peso delle domande rende l’uomo gobbo. E perdente.
Ero con mia madre quella notte, mi parlava di te. Dissertava sulla discrezione delle cose, su quella sensibilità educata che avevi nel sedurre, di quel modo imbarazzato che mostravi nell’approcciare il pianoforte. L’unica virtù che ho ereditato è stata quella nota di basso impigliata tra le maglie del pentagramma: la discrezione. Ingegnosa è stata la tua morte, la migliore. Non ci saranno più repliche allo spettacolo...
Il circo chiude per mancanza di applausi.

martedì 7 luglio 2009

fly


Prendetevi una partenza e lasciate le insicurezze a grattate il cielo con le unghie. Prendetevi le nuvole del cielo d’agosto e contate i giri che impiega l’ottovolante a tracciare la topografia del luna-park. Prendetevi del tempo per il decollo, un respiro affannato due minuti prima del check-in e pacchetti di sigarette da consumare in fretta nell’anticamera della smoking-zone. Trattenete il respiro al decollo, cercate con la coda dell’occhio lo sguardo sereno del comandante. Attendete. Non date alibi alla vostra dipartita, ma piuttosto comode giustificazioni per il ritorno. Accendetevi una sigaretta appena potete, inspirate forte, trattenete. Lasciate che il fuso orario vi stravolga la vacanza. E persino in quelle grigie camere d’albergo, dove ora vi trovate, cercate di non dare troppo nell’occhio con il vostro lussuoso carico di solitudine.

martedì 30 giugno 2009

incipit

- E’ finita.
- Sei sicura?
- Credo di si… anzi SI, è finita.
- Pensaci…
- C’ho già pensato abbastanza. E’ finita, davvero, io non ti amo più.
- C’è un altro?
- No, non c’è nessuno.
- Stronzate. C’è sempre qualche imboscato quando le storie finiscono.
- Beh, questa volta no, ti sbagli.
- Stronzate…
Lentamente, e senza neanche accorgercene, scivoliamo lungo il corridoio dell’ingresso. Sembra un traguardo rincorso per anni, quella porta sullo sfondo a due passi da noi.
Siamo irresistibilmente attratti da una maniglia d’ottone ossidato e dal suo pallido velo di corrosione. Ma non abbiamo più aggressivi chimici da buttargli contro né trattamenti superficiali da tentare. Siamo chiatte che hanno imbarcato troppo acqua dal cielo, ecco cosa siamo. Paranze che stanno affondando, nonostante la quiete.
Tra poco te ne andrai e io ritornerò lentamente a fare i conti con me stesso dopo nove anni di mano nella mano. Non so come sarà, e che sapore avrà il caffè preso in mutande di mattina presto. So solo che in questo preciso momento, in un'anonima domenica d’inizio novembre, non riesco a non pensare a quella maniglia. Voglio girarla, far scattare il meccanismo, sentire gli ingranaggi muoversi: far scattare la molla.
La incalzo, costringola a indietreggiare. Avverte la mia impazienza e simula un ultimo maldestro atto di resistenza. Allungo la mano verso quell’odioso pomello di ottone luccicante, lei me la blocca:
- Non lo so come me ne vado da qui…
Lo dice mentre le trema la voce, lo dice mentre i suoi occhi si perdono tra le fessure delle mattonelle. Un ultimo atto di fede, un’ultima indecisione di fronte al crollo di una costruzione che ci ostinavamo a chiamare amore.
- Non preoccuparti. Ci rivedremo più avanti amore mio... più avanti.
La molla scatta, la porta si apre.
E’ finita, ora lo so.

giovedì 25 giugno 2009

provaci

Vieni a costruire la mia gioia, monta i ponteggi e compra la vernice giusta da stendere sulle pareti dei ventricoli. Lo smalto per renderli impermeabili e la luce migliore da filtrare allo scuro delle tapparelle. Prova a sostare nei miei giorni con l’ingombro della perfezione e parcheggia in centro senza problemi. Puoi asciugarti il sudore con il canovaccio della cucina o attendere scaltra la salsedine dei giorni. Ma prova a costruire la mia gioia senza il bisogno di dimostrarle per forza qualcosa...
Provaci.

martedì 23 giugno 2009

ingenua

Le mutandine di pizzo erano fradice di ormoni. Io odio il pizzo, sa di vecchio. Niente a che vedere con reggicalze in PVC o reggiseni in microfibra lucida e compagnia bella.
Mi guardavi, ti guardavo, mi guardavi, ti guardavo: ce la passavamo ogni sera la palla, con la rassicurante distanza degli sconosciuti. Nessuna incursione, né contropiedi o calci di rigore. C’era un’altra donna tra di noi e c’erano tante, troppe insicurezze da mettere a posto.
Poi una sera hai sbattuto forte il bicchiere al bancone e hai deciso che era arrivato finalmente il tempo delle consultazioni. Il tuo di tempo, perché detto tra noi io nemmeno me le ricordavo più tutte quelle sere trascorse a consumare in silenzio le tue perfette forme da prima donna di quartiere. Io che adesso me ne stavo spaparanzato sul marciapiede del Cinastik, a godermi la carovana degli affetti arrancare nel giro-vita del sabato sera.
E così è andata che hai ordinato un doppio Manhattan senza ghiaccio né ciliegina rossa. E deve proprio aver messo un bel po’ di disordine nei tuoi pensieri tutto quell’alcool tracannato di colpo davanti agli occhi increduli del barista; così tanto da costringerti ad alzarti e barcollare non poco prima di intercettare quei venti metri di corridoio che separano il bancone dall’uscita, schivare gli avventori e i fumatori di sigaretta, i commercianti di rose e quelli di accendini rossi, individuarmi tra la folla e senza proferire parola piegarti verso la mia bocca e ficcarmi la lingua giù per l’esofago fino a spolverare le pareti delle mucose. Quasi fosse un colluttorio.
Non c’è che dire, hai messo in campo il tuo attacco migliore. Baci, lingua e mani dappertutto. E ti ho lasciata fare, assecondando il gioco e chiudendomi in difesa, mentre certa dei miei brividi migliori, bivaccavi lungo il mio corpo con la cadenza calcolata di chi è abituato a prendersele, le cose.
Freno l’impazienza delle tue mani che tentano di inoltrarsi furtivamente dentro la patta, ti afferro la testa e gli impedisco di scendere oltre la striscia pubica dell’ombelico. Gemi e godi, mentre lasci in giro la tua bava come per segnare un territorio che arrivati a questo punto ti appartiene di diritto. Cerco di trascinarti di forza nel vicolo di fronte, allo scuro da occhi indiscreti che oramai sostano a gruppi a pochi metri di distanza. Posso sentire i loro occhi scivolare lungo la pelle, incunearsi in ogni angolo di umidità, partecipare.

Certe sere sono magiche, partono bene e te ne accorgi subito. Hanno la congiunzione astrale. Riga tutto dritto, stai bene, ogni piccola parte di te sta bene, ogni singolo organo funziona a dovere, ogni misera cellula del tuo apparato sta lì a ricordarti che questa, è finalmente la tua sera. E tu lo puoi sentire. Non te lo spieghi il perché di tanta abbondanza tutta assieme, ti sembra solo che la vita funzioni a stolti, che elargisca pacchetti di discreta e ipocrita attenzione a giorni alterni e in maniera del tutto casuale. Quel che è peggio è che credi alla congiunzione astrale così come credi all’oroscopo; e ti capita di ripensarci per giorni, mesi, anni, e nel frattempo dai tutto il merito del tuo successo alla nuova marca di gel effetto bagnato, a quel profumo di seconda marca che a questo punto non era proprio tutta la miseria che costava, o alle tre settimane di palestra che hanno convinto perfino lo specchio dei tuoi più voluminosi pettorali.
Bene, questa è inequivocabilmente la mia serata. E l’oroscopo letto stamattina di sfuggita nel bar sotto casa, c’ha preso che è una meraviglia: “Non ti curar di lei: così facendo concluderai la tua giornata pienamente soddisfatto”.
Io, palesemente scelto e migliore tra tanti. Io, l’eletto tra moltitudini di segaioli.
E per di più da una figa non c’è male.

La situazione mi piace e non poco, la verità. Conduco la partita, detto le regole del gioco. Posso decidere del suo corpo, abusare se voglio, oppure lasciarla lì sulla strada in preda ai suoi stessi umori. Potrei condannarla al mio perpetuo ricordo se solo volessi, se solo sapessi, se solo potessi distaccarmi dalla presa del suo corpo e lasciarla lì sospesa nel limbo del come sarebbe potuto essere. In fin dei conti io ho già vinto: tutta la pratica materiale che segue, è solo roba da dilettanti.
Riesco a fatica a trascinarla pochi passi più in là, in un vicoletto isolato dove a intervalli regolari qualche avventore fa la sua comparsa con la vescica che implora la libera uscita.
Ci appartiamo finalmente.
La lascio fare, la lascio leccare, consumare, sperimentare. La lascio transitare su e giù per il mio corpo, privata oramai di ogni inibizione. Afferro le sue gambe e le sollevo i piedi da terra; le appoggio la schiena contro il muro e spingo forte il mio sesso dentro di lei, contro di lei, mentre soffoco i suoi gemiti con le dita della mano destra che le spingo forte in fondo alla gola. Le morde, le succhia, le sbava. E passa la lingua sul palmo della mano come fosse carta zucchero. Ruvida, come lingua di gatto.
Lecca il mio odore, implora ospitalità, mi costringe a capitolare.
- Non ti fermare, ti prego... – mi dice, poco prima dei congedi. Mi vuole dentro, vuole che sia tutto per lei. Magari per sempre.
E faccio appena in tempo a mollare la presa e a soffocarla lì, tutta questa serata che già sembra non appartenermi più, mentre lei ora se ne scivola leggera lungo il muro di mattoncini rossi aggrappandosi forte alla parete. Lo chiamano “attimo di lucidità” il momento in cui stai per decidere della tua vita; o più prosaicamente, “culo”.
Asciugo la mia virilità con i kleenex della sua borsa saltati fuori come preservativi al momento giusto. E mentre pratico il massaggio emolliente a due passi dal suo restauro fisico e morale, inchiodo con cura tavole di abete scuro all’uscio del mio cuore: non si sa mai con certe donne.

Mi chiedi ancora due ore. Ancora due ore del mio tempo da dedicare alla brace del tuo corpo. Declino, inventando di fretta che c’è una persona che dorme beata tra le coperte della mia camera doppia. - Un uomo, - ho sottolineato. E una camera doppia.
- Facciamo piano... - mi sussurri, mentre affondi la lingua nelle cavità dell’orecchio. E continui a elemosinare il mio tempo, mentre mi confessi senza mezzi termini di desiderare un uomo che sappia cosa significhi scopare una donna.
- Forse non sono all’altezza, - rilancio dopo un attimo di indecisione.
- Lo sei - hai ribadito convinta dei tuoi sensi.
E hai chiuso lì la discussione.

Non mi piacciono i tuoi baci. Le tue labbra sono piccole e la tua bocca non si apre quasi mai. Non mi piace la tua simulata chiarezza di fronte ai problemi della vita, il tuo ingenuo pensare che le cose capitino inevitabilmente solo quand’è il momento.
Ingenua. Cosa credevi? Che bastasse una scopata per sentirsi diversi? O forse migliori? Che la mattina dopo il caffè sarebbe stato diverso, magari edulcorato da un orgasmo conquistato fin troppo comodamente in fondo a qualche sudicio vicolo del centro? Come sei patetica adesso, con tutto il tuo carico di buoni propositi. Nuda e Fragile, potrei schiacciarti con un battito di ciglia. E non dirmi che c’hai pensato, e che magari a quest’ora stai già fantasticando su di un probabile rapporto. Non dirmi che ci credi, perché prima di te c’ho creduto io, e perché in tutto questo gioco fatto di vuoti a perdere c’ho guadagnato appena qualche accenno di gastrite.
Sguardi che si intrecciano al bancone, lingue che si incontrano poco più il là. E poi giocare a dare il meglio di se scendendo rasoterra, brucando le ghiande come maiali nella merda.
Ingenua, non riesci nemmeno a mettere in fila due sentimenti.
E mi racconti per ore della tua solitudine.

venerdì 19 giugno 2009

in ferramenta, probabilmente

Probabilmente dovremmo baciarci arrivati a questo punto. E probabilmente dovremmo fermarci ogni tanto per riprendere fiato, aggrappati come gechi su una panchina rugginosa dell’idroscalo. Ora e mai più dovremmo giocare all’amore; perché l’amore è una bombola d’ossigeno a cui manca l’autenticazione ISO 9001, e perché probabilmente l’unica urgenza che avverto in questo momento è quella di metterti la lingua in bocca e soffocare in fretta ogni malcelata inquietudine. Mi baci ti bacio mi baci ti bacio mi baci ti bacio. E ce lo passiamo così questo amore o come diavolo si chiama: col baker della pallavolo per non rischiare di compromettere il set.
Va’ in ferramenta e scava tra i bulloni. E’ lì che mi troverai.

martedì 16 giugno 2009

non lo so

Ancora non lo so se domani parto o se poi magari resto perché in fondo a noi basta un’incognita per rimetterci al mondo con tanto di biglietti da visita e scadenze feriali incollate come buste raccomandate nei cassonetti della posta e non guardarmi così ti prego non guardarmi così non venirmi a dire che sono uno stronzo perché tanto non ci credo è la solita storia è la solita storia è la solita vecchia storia abusata maltrattata stuprata incollata come manifesti elettorali su muri grigi di periferia.

giovedì 4 giugno 2009

sto per arrivare, sto per arrivare, sto per arrivare... Amore

Stasera le parole non escono, non c’è verso. Stasera le parole sono numeri da pescare a caso nel sacchetto della tombola. Stasera mi convinco che le mie scarpe nuove tirate a lucido col fissante, hanno 20 centimetri di suola al di sopra del cemento duro della tangenziale. Stasera mi convinco che è finalmente la mia serata, anche se il mio ego accusa brividi di freddo.
Stasera non è la serata giusta nemmeno per tirare sassi lungo la strada; l’antifurto suona con un colpo di tosse e i cani sono per strada, mentre poco più in là i vigilantes attaccano biglietti da visita sulle saracinesche cigolanti dei negozi di provincia.
Stasera poi forse esco e ti chiamo appena parcheggio in centro. Ti chiamo e ti dico che sto per arrivare, amore. Stasera ti chiamo e ti dico proprio così: che sto per arrivare... Amore.
Compresi i puntini di sospensione.
Scalo le marce verso i miei dubbi, accelero lungo i posti di blocco, stasera gratto le marce sull’asfalto lucido dei miei pensieri. Stasera non mi frega nemmeno di imbottigliarmi nell’ansia della circonvallazione, stasera le gocce di Xanax le lascio a sedimentare sul fondo del container da 20 ml. Stasera voglio solo sentirmi in viaggio nella tua circolazione sanguigna.
Perciò ti prego, aspettami, non te ne andare.
Sto per arrivare, sto per arrivare, sto per arrivare... Amore.

martedì 28 aprile 2009

Gaeta

E si che poi ci sei andata a Gaeta a farti smontare anche quell’ultimo sorriso, quell’angolo di bocca dove si nasconde l’ultimo refuso della tua malcelata inquietudine.
Lontano da tutti, lontano da te stessa. Lontano anni luce da tutto ciò che ti somiglia.
E si che poi hai ripreso in mano tutti i ferri del mestiere e li hai disposti come cannoncini rossi a difendere un territorio che ti spetta di diritto, come fossimo giocatori occasionali al tavolo del nostro imperdibile Risiko. E hai detto basta a tutte quelle ridicole romanticherie e a tutti quei sterili svaghi da tavolo, tagliandomi fuori dal gioco, ricacciandomi dietro la più lontana delle linee nemiche.
E hai continuato a lavorare sodo perfezionando con cura il tuo assetto da guerra, spolverando le armi necessarie per compiere i tuoi innocui attacchi da principiante...
La difesa ti resta: questo è tutto ciò che io posso concederti.
E hai preferito rimettere assieme quei ferri rugginosi piuttosto che comprarne di nuovi, magari a prezzo scontato, magari anche al mercato dell’usato. Perché in ogni caso tu sai dove mettere le mani, perché all’occorrenza tu sai anche come farli girare. L’hai sempre saputo fare.
Bel mestiere il tuo: pulire la scocca, ingrassare il motore, truccare il contachilometri con la dedizione del meccanico.
Ordinata collocazione dei tuoi sentimenti.

E hai continuato a convincerti che non può esistere un altro uomo nella storia di una donna, che con quel paio di occhi azzurri ci potresti fare la brutta copia di un film già visto, “che poi magari rimango fregata e buonanotte”, hai lasciato intendere. E hai continuato a non fidarti di me, e me lo hai comunicato con una rinnovata, palese, lucida assenza.
Ecchisenefrega, mi sono detto. Peggio per te.
Perché un Uomo è anche tutto ciò che non hai mai nemmeno immaginato, fosse l’ombrello per proteggerti dai giorni di pioggia, fosse il grimaldello per aprire le porte dei tuoi giorni migliori, fosse anche il parafulmine di tutte le tue frustrazioni, fossero anche tutte quelle carezze che una madre ormai delega al futuro di una figlia...

Per amarti senza amare prima me, vorrei essere tua madre.

E hai continuato a convincerti del contrario: “Meglio così”, continuavi a ripeterti.
E si che poi l’hai dovuta pagare cara tutta questa manodopera: in silenzio hai cosparso il cuscino con il sale dei tuoi giorni sprecati, e affondato la testa nel più profondo angolo del letto.
Mi hai detto “aspettami” poco prima di salire sul treno. Io l’ho fatto. E per ogni giorno che ci ha visto lontani ho girato lo sguardo verso il capolinea e strappato quella partenza al mio cuore, per non dargli ancora l’alibi di piangersi addosso senza un motivo.
E si che poi ti ho anche amata, pensa che scemo...
E per la noia di aspettarti, ho steso la nostra storia ad asciugare come panni sporchi sulla linea del tramonto.

lunedì 13 aprile 2009

cronache di un lunedì sera

Dal casello di Roma nord al grande raccordo anulare sono un bel po’ di chilometri. Mi butto sulla destra e mi immetto nel grande traffico della capitale, direzione Fiumicino. Mentre le uscite scorrono regolari alla mia destra ripasso a rallentatore le immagini dell’ultima volta che ho dovuto precipitarmi in clinica: era sempre notte inoltrata, era sempre la stessa Roma, splendida, ineccepibile. Forse, quella della notte, è la luce giusta per rapportarsi ai sentimenti. Forse, quella della notte, è la luce giusta per raccontarsi le favole e per avere ancora il coraggio di crederci. E forse, quella della notte, è la luce giusta per raccontare anche questa, di favola.

Roma, Lunedì 6 Aprile 2009. Sala d’aspetto della “Sacra Famiglia” in Via dei Gracchi, zona Prati. Ore 02.42

Aspetto, parlando con mia madre delle sensazioni che una madre prova un attimo prima di mettere al mondo un figlio. Mi racconta di quel pomeriggio di 34 anni fa, quando, nell’ansia del travaglio, non sapeva ancora che saremmo stati in due ad uscire. Ride, mi guarda con quella dolcezza che non ho mai avuto il coraggio di cogliere a pieno. Mi guarda come per dirmi: “ricordati che la vita oggi sta qui per rinnovare la tua bellezza”.
Io fui l’ultimo a salutare il nuovo mondo: mi presi ancora un quarto d’ora, temporeggiavo. E a quanto pare non fu semplice tirarmi fuori da lì. Tenevo duro, non ne volevo sapere.

Sono passato a prenderla a casa, non stava più nella pelle.
Le chiavi nella mano tentennavano, si muoveva tra il salotto e il bagno senza concedersi un attimo di tregua. Voleva correre da sua figlia, sapeva che lei in quel momento la stava chiamando. Come una leonessa ferita a distanza guardava di mal’affare tutto ciò che le capitava attorno. E il telefono lungo il viaggio che trillava ogni minuto: “Ma dove sei? Ma quanto ti manca? L’hai messa la benzina?”.
Poi siamo usciti di corsa, avventurandoci sulle strade deserte della capitale.
Mi parla della Roma degli anni 60, dei suoi anni all’università, di quando mio padre sfidò l’occupazione studentesca del ’68, andando a prenderla fuori dai cancelli. Anche se non me l’ha mai detto, mi piace pensare che il loro amore sia decollato proprio lì, in via De Lollis, a due passi dalla casa dello studente, a due passi dalle barricate.
E ci accendiamo una sigaretta per toglierci dall’imbarazzo. E facciamo finta di cambiare discorso.
Poi torna ad essere nervosa: “Piazzale degli Eroi! Gira qui a destra!”. E poi ancora: “Sbrigati...non così, fai piano! Attento!”. Un parto è sempre una battaglia dall’esito incerto. Un parto è una barchetta che non ha ancora completato il suo giro di boa.

Chissà cosa passa per la testa ad una madre in questi momenti: mi piace pensare che sono solo affari da donne, pezzi di eternità che solo loro sanno nascondere bene in quel giaciglio di tenerezza che sui libri di anatomia chiamano “utero”. Forse custodiscono un segreto che noi uomini semplicemente non possiamo corrispondere.
Si aspetta, nel silenzio ovattato del reparto.

Poi la porta si apre, di scatto. Massimiliano ci guarda con quei suoi occhi tremuli che stanno per vomitare lacrime, e in un attimo di lucidità riesce a dire a mia madre che può raggiungere la figlia, in sala travaglio.
Si chiama proprio così l’anticamera della vita: “Sala travaglio”. Curioso.
Rimango solo, prendo il taccuino e comincio a scrivere, non so fare altro. Mio fratello torna su con tre caffè presi di corsa al piano terra. Ci guardiamo, nella solitudine del momento. Mi porge il caffè, ce ne restiamo lì a guardare fissi la porta a vetri della sala d’aspetto, sorseggiando piano. Non un parola. Non possiamo fare altro. Oggi siamo soli. Oggi siamo Figli minori.

A tratti si sentono vagiti, forse ci siamo. Esco sul terrazzo e mi accendo una sigaretta. Sono nervoso. Roma è splendida di notte, così permeata di un silenzio antico e imperiale. A due passi Piazzale Clodio, poco più in là svetta luminosa la cupola di San Pietro.
Mi stringo forte alle maniglie del terrazzo, quasi avessi paura di perderla tutta questa vita che tra non molto mi darà il buongiorno.
Noto sulla destra un portavasi sommerso di cicche: mi piace pensare che ogni mozzicone di sigaretta abbia salutato ad ogni giorno una nuova vita. Mi piace pensare che a tutte quelle cicche corrispondano chilometri di padri in attesa, un attimo prima della chiamata. Mi piace pensare che un giorno sommersa tra tutta quella polvere, ci sarà anche la mia, di cicca.

Massimiliano attende, passeggia sempre più irrequieto lungo gli androni del reparto; ogni tanto apre la porta, ci guarda con gli occhi persi, torna indietro a macinare chilometri.
Tra poco sarà padre, per la seconda volta. Chissà cosa passa per la testa a un uomo in questi momenti, chissà a cosa pensa...

Ore 03.25

Benvenuto Edoardo. Benvenuto il tuo coraggio di esserci, a questo mondo. Benvenuta la tua caparbietà di arrivare primo là dove milioni di esistenze hanno fallito.
Vieni al mondo nella camera 306 mentre le pareti della clinica tremano e le mamme con i figli serrati in grembo invadono le corsie. “Tranquille” dico, per tranquillizzare me stesso.
Dove sei mio dio, in questi momenti dove un bimbo viene al mondo e a pochi chilometri di distanza una mamma piange un figlio seppellito sotto metri di polvere? Dove sei dio mio, sei dalla parte della vita o dalla parte della morte? Dimmelo ti prego, perché stanotte tra le coperte ho sentito troppo freddo, perché stanotte ho pianto il fratello che non ho mai conosciuto, perché stanotte le lacrime scavano sugli zigomi come fossero puntelli, e perché stanotte non riesco più a staccare le membra da questa posizione fetale.
E spiegami se puoi, se c’è bisogno di un terremoto al giorno per ricordarmi che sono ancora fatto di anima e corpo. Per ricordarmi che so ancora menzionare il prossimo, e che la fraternità come vedi, ha sempre un prezzo proporzionale al dolore dell’altro, di chi sta peggio di noi. E che c’hai messo al mondo per ricordarci che solo nel dolore sappiamo rammentarci di quanto siamo soli.
Spiegami perché le parole scorrono a fiumi in queste ore silenziose, perché tutto il mondo si mobilita sempre e solo nel frastuono della lamiera saltata per aria, perché ogni ora batte forte solo sui container dei terremotati, in questa stucchevole melassa di solidarietà.
Spiegami i tuoi progetti futuri, Signore, e spiegali soprattutto a chi da domani avrà solo lettere da scriverti per ogni giorno che gli resta ancora da vivere. Rivelagli l’indirizzo dei tuoi pensieri, il centro raccolta della tua corrispondenza, ovunque essa sia.
Rispondi, almeno per questa volta. Rispondi a tutte quelle madri in attesa.
Sabbia o Cemento signore? Spiegami se c’è differenza nell’edificare con l’Odio o con l’Amore. Spiegami i trucchi delle infrastrutture, tutto lo splendore delle bare bianche adagiate come petali di margherite in questo giorno d’estate. Spiegami perché sono costretto a piangere sulle tute catarifrangenti della protezione civile, perché devo sentirmi parte intima di tanta distruzione. Spiegami se è colpa nostra, Signore, spiegaci dove abbiamo sbagliato questa volta, e se c’è qualcosa che non abbiamo ancora compreso. Spiegami se puoi tutto questo dolore, se c’è una logica, e se possibile insegnaci le regole, una volta per tutte.
Spiegami se c’è differenza tra la vita e la sua indifferenza nel lasciarla andare.
Spiegamelo, Signore.
Perché oggi Edoardo è nato, e un domani dovrò spiegargli come sono andate le cose. Perché da come si guarda attorno, dalla fatica che prova a spalancare gli occhi sul mondo, dalla discrezione che ci comunicano le sue prime ore di vita, pare si senta un sopravvissuto.
E allora spiegami anche questo Signore...
Spiegami perché la vita vuole sempre l'ultima parola.

Nec Recisa Recedit.

sabato 21 febbraio 2009

cronache di un giovedì sera

I nostri occhi s’incontrano fuori del locale, quasi come si fossero dati appuntamento. Un milione di persone lì fuori non ci sfiorano nemmeno, non riescono neppure a farci girare la testa sul più bello; che poi è il solito spettacolo dei luoghi comuni, come a dire che anche stasera si vomita sul sigillato tombino della municipale.
E intanto mi concedi un’irriverente viaggio in fondo ai tuoi occhi, mentre cerchi invano di aggrapparli alla mattonella dove ti è toccato di posare i piedi. E lì ci trovi solo un rigo di pioggia che non riesce a decantare, mentre le tue scarpe già si muovono più in là, dove la folla scema e non c’è più rumore, dove le discussioni perdono di tonalità, dove le serate girano a ritroso, come fossero al cinematografo.
E proprio lì, vicino al muretto d’entrata del Lochness, le tue scarpe incontrano la pelle nera delle mie Dr. Martens, baciandole sulla punta. E mi dici “ciao”, con quell’imbarazzo pronunciato che mi autorizza ad innamorami dei tuoi occhi acqua e sapone. E poi ci baciamo sulle guance, come amici sopravvissuti di una sera qualunque, in quell’unica sera dove non siamo riusciti a comprendere nemmeno le regole del nostro rapporto, indecisi persino sui cucchiaini di zucchero da aggiungere al caffè. Ricordi?
E tutta questa indecisione, dopo un mese di latitanza, ce la trasciniamo dietro come carcerati in attesa di un verdetto. E la nostra condanna è tutto questo tempo trascorso altrove, smembrato dall’assenza.
E così precipito in fondo ai tuoi occhi, per un istante non avverto nemmeno il gelo tagliente di febbraio rimboccarmi il cappotto; e tutto il resto va in blocco, trascinato di prepotenza nel limbo delle cose rinviate a domani, in attesa di giudizio. Metto in aspettativa i pensieri quotidiani, non è con loro che condividerò la fine della sigaretta.
No...non è la loro sera questa: è la nostra.
E la nostra sera la passiamo a giocare ai dadi sul bancone di un pub debordante, lanciandoci gli sguardi come sampietrini in un giorno di festa; a distanza, per non tradire troppo in fretta la buona fede di chi ti tiene la mano.
E ci ripromettiamo il domani, mordendoci la pelle di nascosto, mentre ti dico che non ne posso più e che me ne devo andare.
Pago il conto, e spendo le ultime monete per assicurarti un posto in prima classe nello scompartimento sovraffollato del mio cuore.

giovedì 19 febbraio 2009

dopo giorni di pioggia

Ho strappato i tuoi baci alla notte, e li ho tenuti in ostaggio come carcerati ai lavori forzati. Ho morso le tue labbra e consumato il labbro inferiore come pneumatico dopo chilometri di corsa. E ti ho visto appiccicata contro il muro con il pigiama rosso, e ti ho visto sorridere riflessa sul cristallo verde dei miei occhi...
E ti ho amata, dopo giorni di pioggia.

mercoledì 18 febbraio 2009

certe notti le ferite sanguinano

E certe notti le ferite sanguinano, macchiano le lenzuola bianche di rosso porpora, coprono l’odore sterile del bucato.
Certe notti sono aghi infilzati sul petto, all’altezza del cuore. Pungono la carne, affondano nel tessuto connettivo infettandolo di insicurezze.
Certe notti le lacrime sbattono sul comodino come fossero minuti, sostituiscono la sveglia, ogni battere in levare incollato su pareti polverose di alberghi grigi della tangenziale.
Certe notti quel treno è tornato a trovarmi, puntuale, nell’attimo prima della chiusura delle porte. E solo in quelle notti ho avuto il coraggio di guardare il tuo viso sfumare lungo il marciapiede della stazione centrale.
Certe notti le ho trascorse scrivendo il tuo nome sulla condensa di vetri sporchi di camere d’albergo; quelle notti le ho passate in carcere, raschiando con le unghie i nostri nomi dalle intercapedini del cuore.
Certe notti le ho viste danzare sul mare di ferragosto, le ho respirate forte nella brezza del mattino e poi le ho gettate sulla spiaggia come fossero cicche di sigarette...E certe notti io le ho tradite: sotto un caldo piumone d’oca ho barattato un amore per pochi spiccioli di dignità.
Altre notti le ho banchettate, strappando la carne dall’osso e rosicchiando gli avanzi di una sera passata a rincorrerti lungo i banconi di un bar. Come un cane ho sputato l’osso e l’ho trattenuto come un gioco da tavolo accanto alla cuccia.
Certe notti le ho passate raggomitolato contro un plaid di lana per tamponare le lacrime di una storia finita male. E le ho pressate contro il muro come pastafrolla, e le ho contate come pecorelle su un prato di margherite. Quelle notti le ho passate conficcando i piedi nel fango, le ho vomitate nel water cercando di intercettare invano la presa dello sciacquone.
Certe notti le ho passate a viaggiare in lungo e in largo per il tuo corpo, con un biglietto di sola andata da spendere nel parco giochi della tua voluttà. E ho traslocato lungo i tuoi seni, e ho messo radici nella tua verginità.
Certe notti hanno i colori dell’oltremare e l’odore forte del legno marcio lasciato a stagionare in cantina.

E certe notti le ferite sanguinano, io posso sentirle gridare.

martedì 17 febbraio 2009

non capita tutti i giorni di andare al tappeto

Ciondoli sul ring, ti muovi leggero tra una ripresa e l’altra, non l’affronti subito, almeno non come sai fare tu. Rimandi l’attacco, sai che c’è tempo, e un buon combattente deve sapere aspettare il momento.
Lo vedi, è lì a pochi passi da te, la voglia di andargli incontro è più forte del tuo buonsenso, e lentamente, senza neanche accorgertene, scivoli oltre la guardia del nemico.
Parte il primo jeb, nemmeno lo vedi; va a segno diritto sul naso. Il tuo avversario è veloce, questo non l’avevi previsto, mentre ti tamponi il sangue con la pelle del guantone; se tornassi indietro ci ripenseresti, questo è certo. Non si conosce mai il proprio destino fino a quando non si ha una buona scusa per tornare indietro...e ormai è troppo tardi per abbandonare il ring. Ora sei in gioco, ora devi ballare, Cinderella man.
E allora aspetti che il tuo coraggio ti venga a trovare, come nell’età dell’oro delle corse incoscienti sui campi di erba medica, quando eri troppo piccolo per misurarne l’altezza... Attendi quell’archetipo di rabbia cieca che ti ha messo al mondo senza un perché. Attendi che ogni singolo pelo del corpo si drizzi sotto la scarica adrenalinica dell’attacco. Sei nato così, con la rabbia. Non sai perché, sai solo che non avresti potuto sopravvivere altrimenti.
Schivi il diretto, ma la tua guardia si apre, e arriva il montante, il colpo dell’angelo. La tua testa barcolla all’indietro, senti di poter andare al tappeto, senti che l’altro è più forte di te. Manca poco, non avresti mai voluto a che fare con tanta rabbia. Ogni singola parte del tuo corpo la senti gridare, non l’avresti mai detto.
Lui ha qualcosa che a te manca, fosse anche la sua giornata fortunata. Te ne accorgi dai tuoi colpi che non vanno a segno, dalla paura che lentamente intrappola prima la mente, e poi ogni singola fibra del tuo corpo. Ora hai paura, perché sai che nessuno potrà salvarti, a parte il suono metallico del gong.
Gli occhi addosso sono tanti spilli conficcati nella pelle, gli occhi addosso sono posti di blocco in un sabato senza via di fuga; il pubblico annusa il sangue che zampilla da ogni piccola feritoia del tuo corpo, sa bene che non resisterai troppo. Sottolinea ogni colpo con i più sconvenienti aggettivi, e sono questo genere di colpi che fanno più male.
Il pubblico vuole la vittima, il carnefice è solo un sadico sullo sfondo di un’altra giornata andata a farsi fottere. E’ il perdente che cura le ferite delle domeniche pomeriggio. Quindi ora puoi anche permetterti di andare al tappeto: solo per provare almeno una volta nella tua vita l’ebbrezza di avere tutti gli occhi addosso.
Guadagni tempo, muovi le gambe per non pensarci. Sai che il colpo arriverà, è solo questione di tempo. Stai solo cercando di raschiare gli ultimi brandelli di dignità dal fondo di un barile. Si tratta di difendere un posto, un qualunque posto all’interno dello spazio angusto di un sudicio territorio di provincia. Si tratta della tua misera nobiltà da uomo ben fatto, del tuo contratto borghese, dell’estratto conto su carta riciclata ogni domenica mattina. Si tratta delle tue ridicole aspettative da uomo per bene, infrante come mosche sul parabrezza di una Lancia Fulvia del ’69. Si tratta di quella cucitura sul guantone destro fin troppo usurata a ricordarti che c’hai dato dentro...e che le hai anche suonate. E poi, un attimo prime del gong, incrociare gli occhi del pubblico e avvertire la netta sensazione di sentirsi diversi.
Quarta ripresa: ci sono gli occhi da gestire, e un bel po’ di sangue da leccare. Quel liquido che sgorga adesso dall’arcata ti scivola via veloce lungo gli zigomi, mentre la garza cerca invano di tamponare ciò che conosce bene. Gettare la spugna: questo pensiero ti culla solo per un attimo, il tempo giusto per ricordarti che, comunque vada, devi andare fino in fondo.
Schivi il gancio sinistro alla tempia, mentre non vedi partire un montante alle costole che ti lascia con il fiato sospeso. Due diretti in pieno viso ti ricordano che nei prossimi giorni dovrai passare in otorinolaringoiatria, mentre un montante destro al fegato è peggio di quella sera passata a studiare l’ultima goccia di whiskey penzolare incerta dalla bottiglia di Long John.
Rumore sordo, cupo e violento.
Vai al tappeto, mentre le urla eccitate di una massa scomposta accompagnano il tuo knock-out. Doveva succedere prima o poi.
Guardi rasoterra le luci del quadrato annebbiare i pensieri, e pensi che, nonostante tutto, è bello squadrare il mondo da questa prospettiva. Ti ricorda quando eri bambino, di quando come i gatti ti addormentavi sulle mattonelle calde della casa dei nonni, di quando d’estate ti stendevi sul cemento rovente dell’oratorio dopo la partita pomeridiana, di quella volta che lei ti ha gridato: “Alzati, stronzo!”, e tu lì a ridere perché era buffissima, e nonostante tutto poi avete fatto l’amore, occhi negli occhi...e avete fatto la pace. E poi tutta quella voglia di non voler mai più tornare indietro, di tutta quella voglia di rotolarvi sui campi di grano e non voler rialzarvi mai più.
E ti ripeti che in fondo non è colpa tua, che ce l’hai messa tutta, che è inutile rialzarsi, e che domani, come tutti, anche tu avrai la tua rivincita.
Senti il calore del faro direzionale ustionare la superficie del tuo corpo, mentre poco più in là, la pellicola del pop corn si infila come una lama tra i molari dei presenti.
Ti rialzi, raccogli il paradenti...
Non capita tutti i giorni di andare al tappeto.

vai Eluana, corri più forte del ddL

E così la lasciamo adagiata su quel lettino, la nostra Eluana. "Nostra", perché la cosa è diventata ormai di dominio pubblico, non è vero? A questo popolo così civilizzato piace da morire farsi i fatti degli altri, si sa. La lasciamo lì, deformata, piena di ematomi, escoriazioni, lividi, piaghe da decubito, ecchimosi, bava dalla bocca e quant’altro, tanto mica siamo noi che dobbiamo guardarla, mi sbaglio? Non saremo di certo noi a cambiarle ogni ora il pannolone, a pulirle la merda di dosso, a raccogliere il piscio nel pappagallo, ha tamponare tutte le perdite di sangue, a drenarle il pus dalle piaghe...no, per carità, noi nemmeno ne eravamo a conoscenza; noi in 17 anni tutt’al più abbiamo potuto fare solo il concentrato di preghiere nell’ultimo mese. Tanto c’erano i coniugi Englaro che ci badavano.
Che strano popolo il nostro. Ha più coraggio Beppino Englaro che 56 milioni di italiani capaci solo di speculare sui dolori, le sofferenze e le vite private altrui.
Dell’altro, di chi sta peggio di noi, ovviamente.
Ammiro i giornalisti di LA7 che hanno scelto di non documentare più il caso come rispetto nei confronti del dramma della Famiglia Englaro, ammiro Napolitano che si è schierato contro la speculazione politica della vicenda. Credo che la nostra civiltà abbia dato un surplus di valore al concetto di vita, ricacciando il più lontano possibile il concetto di morte. Qualsiasi persona che abbia assistito alla lenta agonia di una persona cara, non può che restare in religioso silenzio di fronte all’immenso dramma e coraggio della famiglia Englaro. Il più delle volte basterebbe solo un po’ di buon senso.
Vai Eluana, corri più forte del ddL.

e poi la pioggia

E poi la pioggia…
Piove, piove sui tetti, sui vicoli imbrattati di gioia, di acrilico e di merda, piove sui panni sporchi, sulle frasi appiccicate ai portoni accostati…su quelli chiusi piove dentro casa. Piove su ogni interstizio dei san pietrini, piove che dio la manda, ma non piove mai abbastanza per chiudersi in casa e tappare le serrature.
Piove che tocca mettersi sotto i portici e vomitare piano le angosce al portaborse di turno. Piove senza lacrime, perché le lacrime si asciugano solo al sole, e la pioggia le confonde come confonde i pensieri. Piove, senza tregua, senza mezze misure.
Piove, ed è come dipingere di grigio Payne la Dama con l’ermellino di Leonardo. Piove perché il mondo vomita le sue angosce, piove perché gli amori finiscono, le storie finiscono, persino i negozi di pietre preziose falliscono. Piove sulle opportunità, sulle occasioni di crescita, di diversità...
Piove su troppe sere passate a giocare ai dadi al bancone di un pub.
Piove perché si aspetta un numero perfetto, o forse solo un suo dividendo. Piove perché non è matematica questo fuoco nello stomaco, questo correre fatto di consuetudini e gioie imprecise...e non c’è Malox che regga a questa emorragia dell’anima: è solo Amore che brucia.
Piove mentre il tergicristalli lava via lo sporco dai tuoi pensieri. E pensi che una donna ti ha cambiato la vita solo perché adesso puoi rischiare di passare le tue dita sul cruscotto e non avere paura di raccogliere solo un po’ di polvere.
Piove perché devo lavarmi…è questo il momento.
Piove.

lunedì 16 febbraio 2009

e m'informi che stai mettendo radici

E m’informi che stai finalmente mettendo radici...
Che ora sai come fare, che adesso affiora l’acqua giusta al tuo mulino.
M’informi che gli idraulici hanno cambiato le tubature, che i falegnami hanno ristrutturato i solai, che gli imbianchini hanno passato una mano di bianco su quelle pareti grigie.
Che finalmente hai smesso di morderti le unghie, che hai iniziato a considerare la possibilità di passare alla carne.
E mi comunichi che adesso filtra luce al neon dalle tapparelle, che le tue stanze profumano di gelsomino, e che la varecchina non consuma più le tue sudice giornate.
Mi offri ospitalità, invitandomi a calpestare il tuo tappeto nuovo, dimenticandoti che conosco bene l’indirizzo, ogni piccola diramazione della tangenziale, ogni singolo by-pass innestato con cura nella cavità delle tue arterie.
E mi offri una esosa liquidazione, sussurrandomi in silenzio che non puoi più aspettare.
M’informi che le tue giornate sottoscrivono cambiali, che ora le passi a studiare con cura le scadenze del tuo pancione; e che ora stai più attenta allo scirocco invernale, che per ogni foglia che cade hai nuovi semi da coltivare.
Mi dici che non la giri più la testa indietro, che adesso non hai più la cervicale, che l’Aulin l’hai terminato da un bel pezzo, e che hai relegato l’emicrania nel primo cassetto, tra i mal di testa dei giorni migliori. Che hai finalmente il ricettario giusto, che in tutto questo tempo hai persino imparato a cucinare...e intanto mischi lo zucchero con il sale, parlando della nostra storia come qualcosa di triviale.
Mi indichi la tua nuova strada, asfaltata di fresco come l’autostrada del sole; e mi ricordi che adesso non esistono più fermate, né caffè presi di corsa ai banconi sovraffollati di un anonimo autogrill. E poi simuli quella sicurezza che tanto ho odiato, cimentandoti nella pulizia delle stoviglie smaltate in acciaio temperato.
Mi ricordi la mia dipartita, e la sottolinei con il detersivo dei piatti sporchi acquistato pochi giorni prima nel discount sotto casa. E mi offri il canovaccio della cucina come prova del tuo impegno...
E dovrei vederti diversa, e io dovrei vederti migliore.
Mi comunichi i tuoi nuovi orari di lavoro, le tue scadenze incollate sul calendario, ogni piccola collocazione temporale. E apri l’agenda per nascondere il mio nome tra i numeri grigi dei giorni feriali, sfogliando i santi a ritroso come fossimo in processione.
E imbratti le lettere del mio nome con la luce opaca dell’evidenziatore.
E lasci a intendere che non farai più a botte con l’amore, che le tue notti non terminano più dove finiscono i tuoi sogni, che perfino i cani hanno smesso di pisciare il territorio, che hai comprato una sveglia nuova per assicurarti il buongiorno, e che adesso hai lenzuola nuove, fresche di bucato. E mi dici che vuoi lasciare una traccia, che ci tieni a continuare...
E intanto mi comunichi il tuo malumore, stizzando nervosamente la cenere nella tazzina del caffè.
M’informi che hai lasciato il nostro divano in cucina, che tra qualche giorno arriveranno i tarli a portarselo via, e che è solo questione di tempo. Che le persiane sono state riverniciate di fresco, che l’acrilico è impermeabile all’acqua e alla luce, e che i manovali hanno lasciato in veranda secchi sporchi di tempera e salsedine. Mi dici che adesso sorridi di più, e che per l’occasione hai comprato una nuova vestaglia in poliestere dove stringere ogni mattina il tuo buonumore.
E metti alla prova la mia tenerezza, parlando del nostro amore e del suo dolore ingenuo...quasi a voler dire che ho solcato i tuoi seni equipaggiato solo di ferraglia da dilettanti, con moschettoni incapaci di trattenerne il peso e picchetti dalla punta stondata. Alte probabilità di rottura...e buone chances di scivolare veloci lungo il pendio dei tuoi tremila metri di sensibilità.
E poi ridi, dio mio quanto sei bella quando ridi.
E mi regali confezioni di tisane, prodotti fitoterapici e parole crociate lasciate a ingiallire in bagno sul davanzale del termosifone, il tuo esoso erario e la tua ben retribuita stanchezza, il fondo del Corriere letto di corsa nel bar sotto casa, la rivisitata opinione degli intellettuali di sinistra, ogni abusato luogo comune, la grigia mantovana della tua camera da letto, le ultime novità in materia di giardinaggio e fiori appassiti per troppo Amore, i menù consumati nei ristoranti dei sabato sera, tutti i locali del centro storico e gli orari di apertura, i promettenti attori delle ultime fiction, la nuova collezione dei bicchieri di Nutella, il tuo nuovo Rinascimento e gli affreschi della tua nuova alcova, l’ordine strategico dei libri in salotto, l’ultima collocazione del tuo contratto sociale, il cinema d’essai e le tue ultime considerazioni sulla ripresa a campo largo della cinematografia francese, l’aggiornamento sugli orari della ZTL, tutte le pagine del tuo carnet, le notti bianche e il British tea della prima colazione, le scarpe lucide e la sciarpa nuova di lana bianca, il Nuovo Ricettario della Cucina Italiana e le dosi appropriate del tuo benestare, decorate con la maionese lungo la porcellana del tuo fantastico guazzetto in salsa rosa.
E m’informi che stai finalmente mettendo radici...
mentre spolveri le ultime molliche di pane dalla tovaglia imbandita del nostro incontro.


PS: Scritto in una sera di malaffare sulle note di “Ce l’ho con l’amore” dei Tetes de bois.

assalti frontali al ventricolo sinistro

Assalti frontali al ventricolo sinistro, in questa notte di resa lungo le trincee del mio territorio emozionale. Il passato torna a trovarmi, spolvera le sue membra flaccide di fondotinta blu.
Lo guardo danzare sui miei pensieri, nell’insolvenza di un conto malato, trascurato e non chiuso per mancanza di tempo. Questa notte è un bagaglio che fa rumore lungo i sudici corridoi di una stazione di provincia, sudore freddo e cambiali da firmare al chiaro di luna. Questa notte è un faro direzionale puntato dritto sul mio petto, un padrone senza il cane, chirurgia pediatrica al settimo mese di vita.
E poi quella volta che ti ho strappato la luce dagli occhi e l’ho poggiata sul comodino di casa in quella notte di blackout. E quei morsi sulla carne livida, sin troppo abusata sotto la passione delle lenzuola bianche. E le mosche a banchettare sui nostri corpi sudati, e le mosche a rifocillarsi sulla superficie dei nostri 40 gradi. In quelle notti fradice, lasciate ad asciugare al sole di un dicembre, come panni sporchi...
E tentare di fermarlo il nostro incontro, sulle panchine del parco sottocasa, sperando in un fortuito incontro, per anni, e poi anni... E quegli anni, adagiati sulle doghe, sfioravano appena la vernice del nostro nome, senza scalfirla. E intanto le colazioni incalzavano, al ritmo eccitato di ogni nuovo giorno. E intanto gli anni passavano, nascosti tra i pacchi di pasta in credenza, affogati nel caffè e latte di ogni freddo mattino. E nei locali sub affittati dei nostri sentimenti, trovare appena un po’ di zucchero da leccare, miele da spalmare sul perimetro di 4 fette biscottate. Imparziale misura del nostro Amore.
E poi la sciarpa dove nascondere la mia emicrania, e il cappotto che stringeva ogni mio giorno di pioggia, la luce al neon che velava i miei occhi di acqua marina. E il collirio ogni mattina alle 6 per nascondere il mio malumore, e il brivido da rincorrere sul marciapiede dei miei giorni.
E poi tutti gli alibi che riuscivo a dipingere sulla superficie della mia dignità, ogni difesa che riuscivo a procurarmi, ogni momento di negazione alle mie stupide recriminazioni. La strada sterrata che collega la mente al cuore, ogni piccolo sassolino schiacciato con cura contro la pianta del piede. E l'euforia marcata sugli zigomi, gli umori circoscritti dal lattice, incollati da sempre sulla superficie della tua indifferenza.
E di te, non rimangono che macchie, aloni di passione sul divano vintage dei ricordi.
Che mai laverò via.

domenica 15 febbraio 2009

un incontro

E poi finalmente la incontro.
Così senza pensarci, senza accorgermene. Dicono che funzioni così quando c'è di mezzo l'Amore.
Iniziamo a parlare, distrattamente. Cosa fai, se ti piace questo posto di merda, se anche tu hai le idee confuse come tutte le donne che mi capita d'incontrare. E invece no, tu hai le idee chiarissime. Per esempio hai una irresistibile voglia di conoscermi, di andare fino in fondo...
C'è un tavolino tra di noi, eppure continuiamo a parlare tutta la sera incuranti della comitiva, dei bicchieri colmi di vodka-lemon e delle troppe mani che a intervalli regolari interrompono il nostro campo d'azione.
Eppure continuiamo a guardarci, a svelare la nostra intimità, appena sussurrata. Me ne accorgo quando vedo la mia immagine riflessa nei suoi occhi lucidi come lo specchio.
E in tutto questo tempo che sembra trascorrere altrove, c'è anche una storia che dura ormai da tanto tempo, si direbbe troppo; ma soprattutto in tutto questo tempo, ci siamo noi incuranti di tutto il resto che ci stiamo innamorando senza nemmeno rendercene conto. Troppo tardi per tornare indietro, troppo presto per ricominciare.
Poco dopo ci troviamo faccia a faccia in una delle tante piazze d'Italia, insieme al branco, ma troppo distanti perdio. E allora, ormai sazio degli sguardi, mi muovo sulla destra, aggiro la compagnia sorprendendola alle spalle e vado a sedermi ad appena 40 centimetri dalle sue labbra. Iniziamo a parlare, e come poco prima, tutto il resto scompare, disintegrato, impalpabile; semplicemente non ci riguarda, almeno per questa notte. E' come mettersi i tappi nelle orecchie. E' come scalare le pareti del cuore...
E a questo punto della serata penso che ci siano buonissime probabilità che io possa, nel giro di una settimana, innamorarmi perdutamente di lei. Ma non ce l'ho una settimana, è questo il punto...domani parto, cazzo. E allora ci salutiamo con l'amaro in bocca, mentre lascio le mie labbra incollate sulle sue guancie.
Ci rivedremo più avanti, magari di Giovedì; me lo ripeto ad ogni centimetro che inesorabilmente inizia a separarmi da lei.
E nell'attesa ci sono da gestire i giorni del ritorno, fiumi d'inchiostro e pensieri che rimbombano tra le pareti di casa.
E nell'attesa ci sono anche tutti i silenzi di questo mondo.
E intanto nell'attesa...
le lacrime solcano il cuore come fossero aerei da ricognizione.