Ogni giorno che lo vado a prendere Pietro indica il suo babbo e dice: è proprio lui maestra. Io mi sento orgoglioso di questo piccolo gesto e sorrido mentre mio figlio mi corre incontro con gli occhietti svelti e la mascherina blu. Capisco che nel mondo dei grandi c’è uno spazio che ho conquistato senza lottare, perché Pietro mi appartiene senza il bisogno di un riscatto, è lui che mi vuole, che non sarebbe così la vita dei grandi senza noi due e tanto mi basta per starmene al mondo. Mentre costeggio S. Agostino lui mi racconta di Mazinga e delle mille favole attaccate al soffitto della sua cameretta. Io ripenso a quando eravamo piccoli ma non riesco più a trovare quello scatto nel cassetto.
venerdì 4 giugno 2021
Giocattoli
lunedì 1 marzo 2021
certi uomini
E’ un fatto che abbiamo perso il contatto con il mondo quando abbiamo smesso di coltivare la terra...
Crediamo di avere il controllo sulla realtà che ci circonda solamente per intelletto e capacità di parola, quando in realtà non siamo altro che una testimonianza su questa terra: siamo orme che svaniranno per lasciare posto ad altre orme.
SUL SOSTANTIVO CHE NON STA BENE PRONUNCIARE
La principale competenza di un mediocre? Riconoscere un altro mediocre (cit. Alain Deneault).
Insieme
formeranno un gruppo di individui puntuali e ossequiosi, perché il conformista
è uno che ama leccare i bisogni più impellenti della classe dirigente. A questo
punto il mediocre contesterà che chi lo scredita è un saccente, presuntuoso e
persino mitomane: tutto ciò è vero, e tuttavia è una colpa che lui stesso non
riesce a perdonarsi.
Il potere il mediocre se lo prende un poco alla volta, quasi a sua insaputa, a furia di favoritismi, pronazioni, compiacenze. Alla fine è lui che resta, quasi per sfinimento, sanguisuga al braccio destro della pubblica amministrazione.
domenica 29 gennaio 2012
sabbia e setaccio
La maestra è brava e forse t’insegnerà come stare al mondo, io sono timido in queste cose. C’è tanta gente che già bussa alla porta, altrettanta che se ne resta al di fuori. Tu preserva la Natura e non permettere mai a una mosca di cagarci contro. Sabbia e setaccio, sabbia e setaccio... Molti si accomoderanno al bancone, tanti altri frugheranno molto più in là, ma tutti dovranno pagare il biglietto perché tutti dovranno vederti danzare. Poi mi dirai che questa storia vuole sempre l’esclusiva, che se non ti mostri e non ti confronti non c’è mai verso di vedere una fine. Ma questo succederà soltanto più tardi, quando sarò ormai troppo stanco per ascoltare le tue parole da uomo. E allora dovrai cavartela da solo, perché non verranno nemmeno i Gormiti a cullare i tuoi sogni. Non pensiamoci piccolo, non pensiamoci mai più. Per adesso c'è un metro di vita scarso che tenta un dribbling, un tiro ad effetto e un tunnel tra piedi per gareggiare col suo tempo. Io ti dirò ancora una volta che hai ragione, poi proverò a caricarti sulle spalle per mostrarti nuovamente l’infinito.
venerdì 27 gennaio 2012
Lettera a G
mercoledì 23 novembre 2011
babel
Me ne torno in dispensa mentre là fuori una sentinella abbaia.
Dal terzo piano, una lacrima decolla.
domenica 17 aprile 2011
lettere dal fronte
domenica 3 aprile 2011
Il Migliore
Ce ne andiamo via dal supermarket degli affetti e tagliamo dritti per la superstrada dei ricordi. Io c’ho sperato, io ce l’ho messa proprio tutta per convincerti a restare: Non è servito, non servirà domani, non serve mai.
07.02.1972 – 27.03.2011
lunedì 14 febbraio 2011
no easy way out (in everlasting memory of Marco Pantani)
domenica 9 gennaio 2011
la Quenty
martedì 21 dicembre 2010
come i latticini ce ne andremo in scadenza
domenica 24 ottobre 2010
stagnola
I pesci rossi te li trovi sul fondo del letto tutte le notti che il tuo mondo piange. Ma a questo punto non possiamo farci più nulla, né io né te né quel mondo ridicolo che ci viaggia di fianco.
La colpa è solo tua che sai come uccidere bene.
Mancavano solo 20 centimetri per espugnare il tuo grembo, solo uno schizzo e avrei conquistato la meta.
martedì 5 ottobre 2010
what If
giovedì 9 settembre 2010
Ti ti ti ti
Stavolta è finita, davvero.
mercoledì 30 giugno 2010
Non dirmelo mai che così va la vita
venerdì 11 giugno 2010
Ayrton
mercoledì 2 giugno 2010
l'aspirapolvere non si cura della vita poco più in là
mercoledì 26 maggio 2010
ci sono molti modi
mercoledì 19 maggio 2010
la festa sta per cominciare
venerdì 14 maggio 2010
il dolore è un chiavistello in ferro battuto
mercoledì 12 maggio 2010
la follia arriverà a sorprenderci nudi
Ti ho presa da dietro, come un vigliacco.
sabato 8 maggio 2010
abstract di una storia (Rosanna non sei tu)
Dicono che dall'anulare sinistro parta una vena che finisce direttamente al cuore. La credenza risale ai romani, che erano convinti che in questa vena scorressero i sentimenti. Non avendo l’oro a disposizione fasciavano l'anulare sinistro col ferro, di modo che lo sposo, per sempre, avrebbe potuto garantirsi la fedeltà della propria moglie.
A cosa serve, a cosa è servito, a cosa mi servirà domani quest’ultimo atto di fede. Forse mi aiuterà a giocare meglio le carte, a difendere lo scudo spaziale e a intercettare i missili nucleari. Ci penso e ci ripenso, deve esserci un porto, un cesso, un luogo sperduto fuori o dentro la mente, un anfratto di mondo dove vomitarti per sempre. Eppure non c’è niente che somigli a quei pezzetti di pasta imbevuti di acido e vino rosso, non c’è frammento a terra né grumi di polvere da spazzare per bene.
Niente, non c’è più niente di noi.
Ma invece c’è tutto. C’è un pensiero che si sporca nel catino del bucato o piuttosto nel caffè di ogni mattina, nelle ore di punta. C’è un pensiero ogni volta che mi guardo attorno e mi ritrovo solo alla cassa 4 del supermercato.
A scuola i professori c’insegnavano l’amore ma noi lo facevamo meglio nel doposcuola. Non ci sfiorava il traffico e non ci sfioravano i giorni che se ne volavano via come bolle di sapone. Le lacrime erano un liquido che cercava la sua via di fuga, e le lacrime erano una barchetta che armeggiava sempre il suo porto.
E questo è l’abstract di questa storia, calzino spaiato nel cestello dei panni sporchi. Il resto stinge nella centrifuga e implora solerte il perdono.
domenica 2 maggio 2010
su questa stupida panchina d'aprile
Piuttosto parliamo di noi, di come ci siamo incontrati. Raccontami il momento più bello, parlami di Sally, la canticchiavi sempre e non me la ricordo già più. Come spiegare la tua dipartita, come spiegarla a me e poi a tutti quelli che verranno quando tu non sarai già più in tempo. Come prepararmi per quel trillo di telefono, rispondere che si, io l’avevo compreso, io c’ero ma non l’ho potuto fermare, quel pezzetto di mondo.
Ho la vista annebbiata, un bel po’ di alcool che sembra non sortire il suo effetto, e un blister di antibiotici da gestire in fondo allo stomaco. Sei qui, a nemmeno dieci centimetri dalle mie mani, e non trovo la forza di allungare un mignolo. Il futuro si arresta, il passato se la ride, le aspettative giacciono moribonde su di un lettino d’ospedale che sembra più luminoso di tutti gli altri. Ma è solo il tramonto che ci sbatte di contro, sono i miei occhi che non la smettono di fissare l’intercapedine anodizzata delle finestre della stanza 14, sono io che non voglio capirci più nulla di tutto questo mondo assurdo di affrontare le cose e vedersele ogni volta sfumare, morire d’inedia.
Ora la musica è davvero forte, ce l’ho nelle orecchie perché tu ora la stai fischiettando, e vorrei poterti scandire ogni singola parola perché a ripeterla nel frastuono dei parenti si perde tutta quella retorica che a me tanto necessita. Mi concedo un altro giro di sotto, solo un altro giro al bancone per rinfrancare il coraggio e mischiare le carte. Ti lascio ancora per dieci minuti, lo so che non l’ho mai fatto, che da quando è successo mi sento come una barchetta a cui hanno negato il largo; ma da quando lo faccio mi sento anche un po’ meglio. Forse è così che funziona, forse le cose le capisci meglio quando ci bevi sopra. Le persone vanno e vengono sul vano 14 e io la parte del numeretto non me la sento proprio. Non con te. Non oggi.
Scendo le scale fino al piano terra e mi viene la paura di aver dimenticato qualcosa più indietro, la colazione a letto, le molliche sull’inguine o magari tutto il resto, che ne so. Perché la colazione a letto c’entra con l’amore che non si racconta, e perché è così che troppo spesso le lascio andare, le cose: di mattina presto il più delle volte, con una tazzina di caffè in una mano e la sigaretta nell’altra. In mutande.
Sorseggio la mia storia, ne assaporo il retrogusto, me la passo sulla lingua e tra i denti, la guardo scendere velocemente giù per le scale, voltarsi un attimo e infine buttarsi in strada ingoiata dal traffico. Per sempre. E’ così che vanno le mie, di cose.
Mi fermo solo un attimo per le sigarette, due battute col barista, qualche considerazione sulla finalissima di Champions, poche parole gettate sul bancone come fossero spiccioli di mancia. E poi il vodka lemon che brucia nell’esofago e di colpo tutto il passato che affiora trasparente quanto il cristallo limpido del bicchiere vuoto. Ma è solo un rapido, ingenuo, colpetto di tosse.
E allora corro, corro più forte dei blocchi della ZTL, corro più forte di ogni mia insicurezza. Guardo con la coda dell’occhio tutte le uscite della E45 sfilare via come fossero birilli, guardo la vita appiccicata come una zanzara sullo specchietto retrovisore della mia Clio 1.2 metallizzata come il cielo. E chissenefrega se stasera uso il clacson come un macete da cultori della strada, stasera perdo troppo e mi godo la vita annaspare dall’altra parte della carreggiata, almeno quello.
Parcheggio in centro, faccio spalle larghe sui divieti di sosta. Mi guardo bene dalle tute bianche della municipale, stasera ho solo voglia di giocare a mosca ceca e mettermi a riparo dal mondo. Quand’ero piccolo il mondo stava tutto nell’oscurità di un nascondiglio e non c’era bisogno di andarselo a cercare perché era il mondo che ci pensava. Anche quando per strada non c’era nessuno e la strada sembrava un cemento liquido che scorreva lento sulle chiatte grigie della tangenziale, era il mondo e i suoi sacchi d’immondizia che ti venivano a trovare. E poi gatti neri e camole da pastura a banchettarci sopra. E quando il mondo ti trovava finiva tutto con una conta fino a dieci, e a quel punto ero io che facevo il mondo e tutto il resto che si andava a nascondere sempre troppo lontano. Adesso non sono più mondo e non sono più niente, ho solo paura che tra non molto mi verrai a stanare e che mi troverai impotente, inetto, su questa stupida panchina d’aprile.
Attendo la tua comparsa, gli incisivi rugano i polpastrelli, la paura che sai pazientemente trasmettermi. Apprendi il codice della mia insicurezza, tu sai come smettere il gioco.
Faccio le scale due a due, guardo la mia faccia riflessa sui piani opachi del dipartimento. Il tramonto è bellissimo, i raggi bucano le vetrate e si spalmano sulle piastrelle bianche azzurre del policlinico. Stasera ho smesso il vestito migliore e indossato il buonumore fresco di bucato. La notte mi sorride, le luci del reparto rallegrano i miei passi, le donne ricambiano fiduciose il mio sguardo.
- Ci vediamo in centro davanti all’arco.
- Ok. Davanti all’arco, domani.
E’ così che ci siamo incontrati, ora ricordo.
Dai che ce la facciamo con le fragole e con i brividi che se ne volano via. La follia è un aeroplano che barcolla al decollo, e vivere non è mai stato semplice se non c’eri più tu.
mercoledì 28 aprile 2010
la panchina del Forlanini è sola contro aprile
mercoledì 21 aprile 2010
quando ero piccolo il maestro diceva sempre che ero nato libero
Mi chiedi perché ho lasciato il network e io guardo fuori la gente che passa. Eppure lo vedi anche tu che non c’è verso di capirci mai niente, che le persone ognuna c’ha la sua vita e va a finire che con tutte queste vite messe assieme non se ne fa mai una da sola. E’ difficile spiegare certe cose, le parole non arrivano quasi mai a destinazione e per ora ci si deve accontentare di un’intuizione.
Quando ero piccolo il maestro diceva sempre a mia madre che ero nato libero.
Si è come ci riesce di starcene al mondo, tra mal di testa e gente che s'incastra. Più spesso nella distruzione, nella gratificazione di una partenza che offre le più interessanti possibilità di impiego. Io questo non l’ho mai capito, e non troverai mai le mie parole giuste a ricordartelo: in questo ufficio di collocamento, viverti non mi è mai bastato.
Poi, di colpo, tu era già dall’altra parte della strada e io non avevo più nulla da stringere.
mi chiedi ancora perché me ne vado e non chiudo mai bene la porta quando lo faccio
Sai perché le cose, le mie di cose, finiscono? Perché non finisce mai la giornata. Il tempo è greve là fuori, con tutto il suo carico di gente che non si da’ pace per somigliarsi un pochino; il tempo mi annoia. Poi arriva qualcuno, arriva sempre qualcuno che parla e che parla e che sembra non volersene mai andare. E mentre lo fanno, mi passa di fianco lo sguardo del mondo che immagino. E m’innamoro ogni volta perché quel mondo corre più forte, corre più a fondo, corre mentre faccio la fila alle poste e la gente mi parla e io non rispondo perché sono felice. Ma ecco, domandarsi che fine abbia fatto quel mondo non serve poi tanto se poi non c’è stato più il tempo d’immaginarselo. Perché adesso la gente mi scivola di fianco e io non provo più nessun bruciore quando mi tocca. Non la trovo. Non la immagino. Non la tocco. E se la gente mi sfuma alle spalle, io non voglio che sfumi anche tu. Io non lo voglio sabotare questo lampo d’immaginazione.
Noi non c’eravamo preparati per questo, noi non c'eravamo affatto. C’eravamo guardati di spalle contenti solo di non starcene al mondo. E allora è meglio che c'inventiamo qualcosa di diverso, qualcosa di complicato come i fili del telegrafo o magari la telescrivente semovibile di Creed. E’ meglio che ce ne stiamo al mondo come il carbonio o piuttosto come le colonne di cemento armato. Ecco, voglio prepararmi per questo: studiare la composizione chimica del cemento e sfruttarne le molteplici possibilità d'impiego.
Perché voglio pensarmi solido.
martedì 13 aprile 2010
Parigi
Il belvedere ci ha tolto il respiro e l’ha infilato di traverso nelle valigie, pressato tra dentifrici e camicie fresche di bucato. E adesso che tutto il mondo fa il check-in, io posso solo guardarti e guardarti, mentre mi parli e parli, e io non faccio resistenza. Perché l’amore m’è parso sempre lo scivolare tra le cose dell’altro e resistere alla tentazione di spostarle.
mercoledì 31 marzo 2010
Infilo la chiave nel portone ed entro nel freezer dei ricordi
Guardo sulla sinistra la cassetta gialla della posta, e ci ritrovo tutta la corrispondenza che non ho mai assolto. Sommersa sotto centimetri di polvere, ci sei anche tu che te la ridi e te la spassi oltre il vetro sporco del tuo modo di vedere le cose.
Hai lasciato le pentole a screpolarsi in dispensa, tappi di sughero e bottiglie di vino a prendere d’aceto vicino ai fornelli. E sa di tappo tutto questo disordine, capodanno in ritardo e dolci secchi ad ammuffire in credenza.
giovedì 18 marzo 2010
sogno
L’altro giorno facevo il conto dei rumori di fondo e c’era un gran casino nel cervello che ho visto gli anni correre veloci appresso al primo brivido di pelle. Per ogni sogno che faccio ci saranno almeno sette alibi al giorno che mi parano il culo.
E allora pensa che scemo.
martedì 9 marzo 2010
solo i sogni sono veri
Dopo l’amore attaccavamo i sogni al soffitto e li guardavamo planare come petali sul cuscino. Oggi torno spesso alla manutenzione, passo la coppale sul legno e il trucco sta tutto nel non vederlo invecchiare. E sul parapendio c’è tanta di quella polvere e tu che torni come il bel tempo a spolverare.