Assalti frontali al ventricolo sinistro, in questa notte di resa lungo le trincee del mio territorio emozionale. Il passato torna a trovarmi, spolvera le sue membra flaccide di fondotinta blu.
Lo guardo danzare sui miei pensieri, nell’insolvenza di un conto malato, trascurato e non chiuso per mancanza di tempo. Questa notte è un bagaglio che fa rumore lungo i sudici corridoi di una stazione di provincia, sudore freddo e cambiali da firmare al chiaro di luna. Questa notte è un faro direzionale puntato dritto sul mio petto, un padrone senza il cane, chirurgia pediatrica al settimo mese di vita.
E poi quella volta che ti ho strappato la luce dagli occhi e l’ho poggiata sul comodino di casa in quella notte di blackout. E quei morsi sulla carne livida, sin troppo abusata sotto la passione delle lenzuola bianche. E le mosche a banchettare sui nostri corpi sudati, e le mosche a rifocillarsi sulla superficie dei nostri 40 gradi. In quelle notti fradice, lasciate ad asciugare al sole di un dicembre, come panni sporchi...
E tentare di fermarlo il nostro incontro, sulle panchine del parco sottocasa, sperando in un fortuito incontro, per anni, e poi anni... E quegli anni, adagiati sulle doghe, sfioravano appena la vernice del nostro nome, senza scalfirla. E intanto le colazioni incalzavano, al ritmo eccitato di ogni nuovo giorno. E intanto gli anni passavano, nascosti tra i pacchi di pasta in credenza, affogati nel caffè e latte di ogni freddo mattino. E nei locali sub affittati dei nostri sentimenti, trovare appena un po’ di zucchero da leccare, miele da spalmare sul perimetro di 4 fette biscottate. Imparziale misura del nostro Amore.
E poi la sciarpa dove nascondere la mia emicrania, e il cappotto che stringeva ogni mio giorno di pioggia, la luce al neon che velava i miei occhi di acqua marina. E il collirio ogni mattina alle 6 per nascondere il mio malumore, e il brivido da rincorrere sul marciapiede dei miei giorni.
E poi tutti gli alibi che riuscivo a dipingere sulla superficie della mia dignità, ogni difesa che riuscivo a procurarmi, ogni momento di negazione alle mie stupide recriminazioni. La strada sterrata che collega la mente al cuore, ogni piccolo sassolino schiacciato con cura contro la pianta del piede. E l'euforia marcata sugli zigomi, gli umori circoscritti dal lattice, incollati da sempre sulla superficie della tua indifferenza.
E di te, non rimangono che macchie, aloni di passione sul divano vintage dei ricordi.
Che mai laverò via.
Lo guardo danzare sui miei pensieri, nell’insolvenza di un conto malato, trascurato e non chiuso per mancanza di tempo. Questa notte è un bagaglio che fa rumore lungo i sudici corridoi di una stazione di provincia, sudore freddo e cambiali da firmare al chiaro di luna. Questa notte è un faro direzionale puntato dritto sul mio petto, un padrone senza il cane, chirurgia pediatrica al settimo mese di vita.
E poi quella volta che ti ho strappato la luce dagli occhi e l’ho poggiata sul comodino di casa in quella notte di blackout. E quei morsi sulla carne livida, sin troppo abusata sotto la passione delle lenzuola bianche. E le mosche a banchettare sui nostri corpi sudati, e le mosche a rifocillarsi sulla superficie dei nostri 40 gradi. In quelle notti fradice, lasciate ad asciugare al sole di un dicembre, come panni sporchi...
E tentare di fermarlo il nostro incontro, sulle panchine del parco sottocasa, sperando in un fortuito incontro, per anni, e poi anni... E quegli anni, adagiati sulle doghe, sfioravano appena la vernice del nostro nome, senza scalfirla. E intanto le colazioni incalzavano, al ritmo eccitato di ogni nuovo giorno. E intanto gli anni passavano, nascosti tra i pacchi di pasta in credenza, affogati nel caffè e latte di ogni freddo mattino. E nei locali sub affittati dei nostri sentimenti, trovare appena un po’ di zucchero da leccare, miele da spalmare sul perimetro di 4 fette biscottate. Imparziale misura del nostro Amore.
E poi la sciarpa dove nascondere la mia emicrania, e il cappotto che stringeva ogni mio giorno di pioggia, la luce al neon che velava i miei occhi di acqua marina. E il collirio ogni mattina alle 6 per nascondere il mio malumore, e il brivido da rincorrere sul marciapiede dei miei giorni.
E poi tutti gli alibi che riuscivo a dipingere sulla superficie della mia dignità, ogni difesa che riuscivo a procurarmi, ogni momento di negazione alle mie stupide recriminazioni. La strada sterrata che collega la mente al cuore, ogni piccolo sassolino schiacciato con cura contro la pianta del piede. E l'euforia marcata sugli zigomi, gli umori circoscritti dal lattice, incollati da sempre sulla superficie della tua indifferenza.
E di te, non rimangono che macchie, aloni di passione sul divano vintage dei ricordi.
Che mai laverò via.
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