Ciondoli sul ring, ti muovi leggero tra una ripresa e l’altra, non l’affronti subito, almeno non come sai fare tu. Rimandi l’attacco, sai che c’è tempo, e un buon combattente deve sapere aspettare il momento.
Lo vedi, è lì a pochi passi da te, la voglia di andargli incontro è più forte del tuo buonsenso, e lentamente, senza neanche accorgertene, scivoli oltre la guardia del nemico.
Parte il primo jeb, nemmeno lo vedi; va a segno diritto sul naso. Il tuo avversario è veloce, questo non l’avevi previsto, mentre ti tamponi il sangue con la pelle del guantone; se tornassi indietro ci ripenseresti, questo è certo. Non si conosce mai il proprio destino fino a quando non si ha una buona scusa per tornare indietro...e ormai è troppo tardi per abbandonare il ring. Ora sei in gioco, ora devi ballare, Cinderella man.
E allora aspetti che il tuo coraggio ti venga a trovare, come nell’età dell’oro delle corse incoscienti sui campi di erba medica, quando eri troppo piccolo per misurarne l’altezza... Attendi quell’archetipo di rabbia cieca che ti ha messo al mondo senza un perché. Attendi che ogni singolo pelo del corpo si drizzi sotto la scarica adrenalinica dell’attacco. Sei nato così, con la rabbia. Non sai perché, sai solo che non avresti potuto sopravvivere altrimenti.
Schivi il diretto, ma la tua guardia si apre, e arriva il montante, il colpo dell’angelo. La tua testa barcolla all’indietro, senti di poter andare al tappeto, senti che l’altro è più forte di te. Manca poco, non avresti mai voluto a che fare con tanta rabbia. Ogni singola parte del tuo corpo la senti gridare, non l’avresti mai detto.
Lui ha qualcosa che a te manca, fosse anche la sua giornata fortunata. Te ne accorgi dai tuoi colpi che non vanno a segno, dalla paura che lentamente intrappola prima la mente, e poi ogni singola fibra del tuo corpo. Ora hai paura, perché sai che nessuno potrà salvarti, a parte il suono metallico del gong.
Gli occhi addosso sono tanti spilli conficcati nella pelle, gli occhi addosso sono posti di blocco in un sabato senza via di fuga; il pubblico annusa il sangue che zampilla da ogni piccola feritoia del tuo corpo, sa bene che non resisterai troppo. Sottolinea ogni colpo con i più sconvenienti aggettivi, e sono questo genere di colpi che fanno più male.
Il pubblico vuole la vittima, il carnefice è solo un sadico sullo sfondo di un’altra giornata andata a farsi fottere. E’ il perdente che cura le ferite delle domeniche pomeriggio. Quindi ora puoi anche permetterti di andare al tappeto: solo per provare almeno una volta nella tua vita l’ebbrezza di avere tutti gli occhi addosso.
Guadagni tempo, muovi le gambe per non pensarci. Sai che il colpo arriverà, è solo questione di tempo. Stai solo cercando di raschiare gli ultimi brandelli di dignità dal fondo di un barile. Si tratta di difendere un posto, un qualunque posto all’interno dello spazio angusto di un sudicio territorio di provincia. Si tratta della tua misera nobiltà da uomo ben fatto, del tuo contratto borghese, dell’estratto conto su carta riciclata ogni domenica mattina. Si tratta delle tue ridicole aspettative da uomo per bene, infrante come mosche sul parabrezza di una Lancia Fulvia del ’69. Si tratta di quella cucitura sul guantone destro fin troppo usurata a ricordarti che c’hai dato dentro...e che le hai anche suonate. E poi, un attimo prime del gong, incrociare gli occhi del pubblico e avvertire la netta sensazione di sentirsi diversi.
Quarta ripresa: ci sono gli occhi da gestire, e un bel po’ di sangue da leccare. Quel liquido che sgorga adesso dall’arcata ti scivola via veloce lungo gli zigomi, mentre la garza cerca invano di tamponare ciò che conosce bene. Gettare la spugna: questo pensiero ti culla solo per un attimo, il tempo giusto per ricordarti che, comunque vada, devi andare fino in fondo.
Schivi il gancio sinistro alla tempia, mentre non vedi partire un montante alle costole che ti lascia con il fiato sospeso. Due diretti in pieno viso ti ricordano che nei prossimi giorni dovrai passare in otorinolaringoiatria, mentre un montante destro al fegato è peggio di quella sera passata a studiare l’ultima goccia di whiskey penzolare incerta dalla bottiglia di Long John.
Rumore sordo, cupo e violento.
Vai al tappeto, mentre le urla eccitate di una massa scomposta accompagnano il tuo knock-out. Doveva succedere prima o poi.
Guardi rasoterra le luci del quadrato annebbiare i pensieri, e pensi che, nonostante tutto, è bello squadrare il mondo da questa prospettiva. Ti ricorda quando eri bambino, di quando come i gatti ti addormentavi sulle mattonelle calde della casa dei nonni, di quando d’estate ti stendevi sul cemento rovente dell’oratorio dopo la partita pomeridiana, di quella volta che lei ti ha gridato: “Alzati, stronzo!”, e tu lì a ridere perché era buffissima, e nonostante tutto poi avete fatto l’amore, occhi negli occhi...e avete fatto la pace. E poi tutta quella voglia di non voler mai più tornare indietro, di tutta quella voglia di rotolarvi sui campi di grano e non voler rialzarvi mai più.
E ti ripeti che in fondo non è colpa tua, che ce l’hai messa tutta, che è inutile rialzarsi, e che domani, come tutti, anche tu avrai la tua rivincita.
Senti il calore del faro direzionale ustionare la superficie del tuo corpo, mentre poco più in là, la pellicola del pop corn si infila come una lama tra i molari dei presenti.
Ti rialzi, raccogli il paradenti...
Non capita tutti i giorni di andare al tappeto.
Lo vedi, è lì a pochi passi da te, la voglia di andargli incontro è più forte del tuo buonsenso, e lentamente, senza neanche accorgertene, scivoli oltre la guardia del nemico.
Parte il primo jeb, nemmeno lo vedi; va a segno diritto sul naso. Il tuo avversario è veloce, questo non l’avevi previsto, mentre ti tamponi il sangue con la pelle del guantone; se tornassi indietro ci ripenseresti, questo è certo. Non si conosce mai il proprio destino fino a quando non si ha una buona scusa per tornare indietro...e ormai è troppo tardi per abbandonare il ring. Ora sei in gioco, ora devi ballare, Cinderella man.
E allora aspetti che il tuo coraggio ti venga a trovare, come nell’età dell’oro delle corse incoscienti sui campi di erba medica, quando eri troppo piccolo per misurarne l’altezza... Attendi quell’archetipo di rabbia cieca che ti ha messo al mondo senza un perché. Attendi che ogni singolo pelo del corpo si drizzi sotto la scarica adrenalinica dell’attacco. Sei nato così, con la rabbia. Non sai perché, sai solo che non avresti potuto sopravvivere altrimenti.
Schivi il diretto, ma la tua guardia si apre, e arriva il montante, il colpo dell’angelo. La tua testa barcolla all’indietro, senti di poter andare al tappeto, senti che l’altro è più forte di te. Manca poco, non avresti mai voluto a che fare con tanta rabbia. Ogni singola parte del tuo corpo la senti gridare, non l’avresti mai detto.
Lui ha qualcosa che a te manca, fosse anche la sua giornata fortunata. Te ne accorgi dai tuoi colpi che non vanno a segno, dalla paura che lentamente intrappola prima la mente, e poi ogni singola fibra del tuo corpo. Ora hai paura, perché sai che nessuno potrà salvarti, a parte il suono metallico del gong.
Gli occhi addosso sono tanti spilli conficcati nella pelle, gli occhi addosso sono posti di blocco in un sabato senza via di fuga; il pubblico annusa il sangue che zampilla da ogni piccola feritoia del tuo corpo, sa bene che non resisterai troppo. Sottolinea ogni colpo con i più sconvenienti aggettivi, e sono questo genere di colpi che fanno più male.
Il pubblico vuole la vittima, il carnefice è solo un sadico sullo sfondo di un’altra giornata andata a farsi fottere. E’ il perdente che cura le ferite delle domeniche pomeriggio. Quindi ora puoi anche permetterti di andare al tappeto: solo per provare almeno una volta nella tua vita l’ebbrezza di avere tutti gli occhi addosso.
Guadagni tempo, muovi le gambe per non pensarci. Sai che il colpo arriverà, è solo questione di tempo. Stai solo cercando di raschiare gli ultimi brandelli di dignità dal fondo di un barile. Si tratta di difendere un posto, un qualunque posto all’interno dello spazio angusto di un sudicio territorio di provincia. Si tratta della tua misera nobiltà da uomo ben fatto, del tuo contratto borghese, dell’estratto conto su carta riciclata ogni domenica mattina. Si tratta delle tue ridicole aspettative da uomo per bene, infrante come mosche sul parabrezza di una Lancia Fulvia del ’69. Si tratta di quella cucitura sul guantone destro fin troppo usurata a ricordarti che c’hai dato dentro...e che le hai anche suonate. E poi, un attimo prime del gong, incrociare gli occhi del pubblico e avvertire la netta sensazione di sentirsi diversi.
Quarta ripresa: ci sono gli occhi da gestire, e un bel po’ di sangue da leccare. Quel liquido che sgorga adesso dall’arcata ti scivola via veloce lungo gli zigomi, mentre la garza cerca invano di tamponare ciò che conosce bene. Gettare la spugna: questo pensiero ti culla solo per un attimo, il tempo giusto per ricordarti che, comunque vada, devi andare fino in fondo.
Schivi il gancio sinistro alla tempia, mentre non vedi partire un montante alle costole che ti lascia con il fiato sospeso. Due diretti in pieno viso ti ricordano che nei prossimi giorni dovrai passare in otorinolaringoiatria, mentre un montante destro al fegato è peggio di quella sera passata a studiare l’ultima goccia di whiskey penzolare incerta dalla bottiglia di Long John.
Rumore sordo, cupo e violento.
Vai al tappeto, mentre le urla eccitate di una massa scomposta accompagnano il tuo knock-out. Doveva succedere prima o poi.
Guardi rasoterra le luci del quadrato annebbiare i pensieri, e pensi che, nonostante tutto, è bello squadrare il mondo da questa prospettiva. Ti ricorda quando eri bambino, di quando come i gatti ti addormentavi sulle mattonelle calde della casa dei nonni, di quando d’estate ti stendevi sul cemento rovente dell’oratorio dopo la partita pomeridiana, di quella volta che lei ti ha gridato: “Alzati, stronzo!”, e tu lì a ridere perché era buffissima, e nonostante tutto poi avete fatto l’amore, occhi negli occhi...e avete fatto la pace. E poi tutta quella voglia di non voler mai più tornare indietro, di tutta quella voglia di rotolarvi sui campi di grano e non voler rialzarvi mai più.
E ti ripeti che in fondo non è colpa tua, che ce l’hai messa tutta, che è inutile rialzarsi, e che domani, come tutti, anche tu avrai la tua rivincita.
Senti il calore del faro direzionale ustionare la superficie del tuo corpo, mentre poco più in là, la pellicola del pop corn si infila come una lama tra i molari dei presenti.
Ti rialzi, raccogli il paradenti...
Non capita tutti i giorni di andare al tappeto.
1 commento:
grazie della visita.. vedo che segui le luci della centrale elettrica ;)
bel blog.
alla prossima,
giulia
Posta un commento