martedì 23 giugno 2009

ingenua

Le mutandine di pizzo erano fradice di ormoni. Io odio il pizzo, sa di vecchio. Niente a che vedere con reggicalze in PVC o reggiseni in microfibra lucida e compagnia bella.
Mi guardavi, ti guardavo, mi guardavi, ti guardavo: ce la passavamo ogni sera la palla, con la rassicurante distanza degli sconosciuti. Nessuna incursione, né contropiedi o calci di rigore. C’era un’altra donna tra di noi e c’erano tante, troppe insicurezze da mettere a posto.
Poi una sera hai sbattuto forte il bicchiere al bancone e hai deciso che era arrivato finalmente il tempo delle consultazioni. Il tuo di tempo, perché detto tra noi io nemmeno me le ricordavo più tutte quelle sere trascorse a consumare in silenzio le tue perfette forme da prima donna di quartiere. Io che adesso me ne stavo spaparanzato sul marciapiede del Cinastik, a godermi la carovana degli affetti arrancare nel giro-vita del sabato sera.
E così è andata che hai ordinato un doppio Manhattan senza ghiaccio né ciliegina rossa. E deve proprio aver messo un bel po’ di disordine nei tuoi pensieri tutto quell’alcool tracannato di colpo davanti agli occhi increduli del barista; così tanto da costringerti ad alzarti e barcollare non poco prima di intercettare quei venti metri di corridoio che separano il bancone dall’uscita, schivare gli avventori e i fumatori di sigaretta, i commercianti di rose e quelli di accendini rossi, individuarmi tra la folla e senza proferire parola piegarti verso la mia bocca e ficcarmi la lingua giù per l’esofago fino a spolverare le pareti delle mucose. Quasi fosse un colluttorio.
Non c’è che dire, hai messo in campo il tuo attacco migliore. Baci, lingua e mani dappertutto. E ti ho lasciata fare, assecondando il gioco e chiudendomi in difesa, mentre certa dei miei brividi migliori, bivaccavi lungo il mio corpo con la cadenza calcolata di chi è abituato a prendersele, le cose.
Freno l’impazienza delle tue mani che tentano di inoltrarsi furtivamente dentro la patta, ti afferro la testa e gli impedisco di scendere oltre la striscia pubica dell’ombelico. Gemi e godi, mentre lasci in giro la tua bava come per segnare un territorio che arrivati a questo punto ti appartiene di diritto. Cerco di trascinarti di forza nel vicolo di fronte, allo scuro da occhi indiscreti che oramai sostano a gruppi a pochi metri di distanza. Posso sentire i loro occhi scivolare lungo la pelle, incunearsi in ogni angolo di umidità, partecipare.

Certe sere sono magiche, partono bene e te ne accorgi subito. Hanno la congiunzione astrale. Riga tutto dritto, stai bene, ogni piccola parte di te sta bene, ogni singolo organo funziona a dovere, ogni misera cellula del tuo apparato sta lì a ricordarti che questa, è finalmente la tua sera. E tu lo puoi sentire. Non te lo spieghi il perché di tanta abbondanza tutta assieme, ti sembra solo che la vita funzioni a stolti, che elargisca pacchetti di discreta e ipocrita attenzione a giorni alterni e in maniera del tutto casuale. Quel che è peggio è che credi alla congiunzione astrale così come credi all’oroscopo; e ti capita di ripensarci per giorni, mesi, anni, e nel frattempo dai tutto il merito del tuo successo alla nuova marca di gel effetto bagnato, a quel profumo di seconda marca che a questo punto non era proprio tutta la miseria che costava, o alle tre settimane di palestra che hanno convinto perfino lo specchio dei tuoi più voluminosi pettorali.
Bene, questa è inequivocabilmente la mia serata. E l’oroscopo letto stamattina di sfuggita nel bar sotto casa, c’ha preso che è una meraviglia: “Non ti curar di lei: così facendo concluderai la tua giornata pienamente soddisfatto”.
Io, palesemente scelto e migliore tra tanti. Io, l’eletto tra moltitudini di segaioli.
E per di più da una figa non c’è male.

La situazione mi piace e non poco, la verità. Conduco la partita, detto le regole del gioco. Posso decidere del suo corpo, abusare se voglio, oppure lasciarla lì sulla strada in preda ai suoi stessi umori. Potrei condannarla al mio perpetuo ricordo se solo volessi, se solo sapessi, se solo potessi distaccarmi dalla presa del suo corpo e lasciarla lì sospesa nel limbo del come sarebbe potuto essere. In fin dei conti io ho già vinto: tutta la pratica materiale che segue, è solo roba da dilettanti.
Riesco a fatica a trascinarla pochi passi più in là, in un vicoletto isolato dove a intervalli regolari qualche avventore fa la sua comparsa con la vescica che implora la libera uscita.
Ci appartiamo finalmente.
La lascio fare, la lascio leccare, consumare, sperimentare. La lascio transitare su e giù per il mio corpo, privata oramai di ogni inibizione. Afferro le sue gambe e le sollevo i piedi da terra; le appoggio la schiena contro il muro e spingo forte il mio sesso dentro di lei, contro di lei, mentre soffoco i suoi gemiti con le dita della mano destra che le spingo forte in fondo alla gola. Le morde, le succhia, le sbava. E passa la lingua sul palmo della mano come fosse carta zucchero. Ruvida, come lingua di gatto.
Lecca il mio odore, implora ospitalità, mi costringe a capitolare.
- Non ti fermare, ti prego... – mi dice, poco prima dei congedi. Mi vuole dentro, vuole che sia tutto per lei. Magari per sempre.
E faccio appena in tempo a mollare la presa e a soffocarla lì, tutta questa serata che già sembra non appartenermi più, mentre lei ora se ne scivola leggera lungo il muro di mattoncini rossi aggrappandosi forte alla parete. Lo chiamano “attimo di lucidità” il momento in cui stai per decidere della tua vita; o più prosaicamente, “culo”.
Asciugo la mia virilità con i kleenex della sua borsa saltati fuori come preservativi al momento giusto. E mentre pratico il massaggio emolliente a due passi dal suo restauro fisico e morale, inchiodo con cura tavole di abete scuro all’uscio del mio cuore: non si sa mai con certe donne.

Mi chiedi ancora due ore. Ancora due ore del mio tempo da dedicare alla brace del tuo corpo. Declino, inventando di fretta che c’è una persona che dorme beata tra le coperte della mia camera doppia. - Un uomo, - ho sottolineato. E una camera doppia.
- Facciamo piano... - mi sussurri, mentre affondi la lingua nelle cavità dell’orecchio. E continui a elemosinare il mio tempo, mentre mi confessi senza mezzi termini di desiderare un uomo che sappia cosa significhi scopare una donna.
- Forse non sono all’altezza, - rilancio dopo un attimo di indecisione.
- Lo sei - hai ribadito convinta dei tuoi sensi.
E hai chiuso lì la discussione.

Non mi piacciono i tuoi baci. Le tue labbra sono piccole e la tua bocca non si apre quasi mai. Non mi piace la tua simulata chiarezza di fronte ai problemi della vita, il tuo ingenuo pensare che le cose capitino inevitabilmente solo quand’è il momento.
Ingenua. Cosa credevi? Che bastasse una scopata per sentirsi diversi? O forse migliori? Che la mattina dopo il caffè sarebbe stato diverso, magari edulcorato da un orgasmo conquistato fin troppo comodamente in fondo a qualche sudicio vicolo del centro? Come sei patetica adesso, con tutto il tuo carico di buoni propositi. Nuda e Fragile, potrei schiacciarti con un battito di ciglia. E non dirmi che c’hai pensato, e che magari a quest’ora stai già fantasticando su di un probabile rapporto. Non dirmi che ci credi, perché prima di te c’ho creduto io, e perché in tutto questo gioco fatto di vuoti a perdere c’ho guadagnato appena qualche accenno di gastrite.
Sguardi che si intrecciano al bancone, lingue che si incontrano poco più il là. E poi giocare a dare il meglio di se scendendo rasoterra, brucando le ghiande come maiali nella merda.
Ingenua, non riesci nemmeno a mettere in fila due sentimenti.
E mi racconti per ore della tua solitudine.

1 commento:

Asha Sysley ha detto...

E dalle tue parole mi sono lasciata cullare. Ho sorriso ritrovandomi ora nell'uno ora nell'altro. Nel desiderio di una sera, nel essere seduto al tavolo di un bar di una sera calda d'estate.
Nel desiderio delle donne, che nel loro esatto opposto concretizzano la loro insicurezza. In quell'attimo di gloria finale dove se sai muoverti, sai che elegantemente puoi elargire un sorriso e andartene piuttosto che perpetrare un fuoco che in un attimo si è acceso e in un attimo si è spento.
Ho sempre pensato che le persone non abbiamo la cognizione del momento, di perchè quella scintilla è scattata, e di come reagire al dopo. Altre prendono licenze come se fosse una vita che si è assieme.
Ma le tue parole, per quanto dure, sono quanto di più vero, in certi momenti avrei voluto ascoltare.