venerdì 14 maggio 2010

il dolore è un chiavistello in ferro battuto

Oggi un amico mi ha telefonato con la scusa del week-end e c'ha infilato di traverso i cazzi miei. Voleva sapere, l'amico, voleva strapparmi di bocca un dolore che non ho mai trovato il coraggio di condividere. Perché il dolore è un affare troppo lungo da raccontare, non sai mai da dove comincia e quel che è peggio non si sa mai dove andrà a parare. Se il dolore non ti riguarda, tutto quest'affare diventa un protocollo buono solo a spalmarci sopra la coscienza; se lo racconti, il dolore, non c'è mai nessuno davvero buono a farci un'obiezione. E a me non piacciono le cose che non fanno opposizione.

Ad esempio parliamo della morte e diciamo pure che era stata prevista e programmata da tempo. Ma le persone - l'amico - ti tendono la mano e sembrano dirti che i miracoli esistono per davvero anche se non ce ne siamo mai accorti. Non sono solo un mucchio di fregnacce, funzionano bene così come le cure omeopatiche. L'amico non se ne rende conto ma è davvero patetico con tutti i suoi rimandi anodini freschi di retorica da bancone del pesce fresco. Datti una regolata bello, perché la vita non me la devi insegnare e non me la devi insegnare adesso. La vita è un ammasso di cellule che si moltiplicano e che quando vogliono finirla lì non ti spediscono nemmeno la raccomandata. Io al mio amico vorrei dirgli che è finita da un bel pezzo e che sono appena trascorsi quindici minuti di luoghi comuni. Piuttosto butta giù il telefono che la vita per te è là fuori e certe cose sono più grandi dei tuoi pensieri da pesce, ecco cosa vorrei dire al mio amico e a quel cazzo di mondo comodo e morboso. E invece dico solo che è un tappo alle vie biliari, un'operazione da risolversi in un nulla.

Il dolore degli altri è scontato, non fa mai troppo rumore. Il dolore degli altri deborda la parte più abietta del genere umano, funge da zerbino per la propria coscienza. Perché la pietà è una cosa disgustosa, un'elemosina di tutti e cinque i sensi messi assieme. Dio che strazio le persone buone, quelli con gli avverbi protocollati, le pacche sulle spalle e tutto lo schifo del loro contagio. Il bisogno di sapere che c'è sempre chi sta messo peggio, il bisogno di una comparazione. E' inutile che continui a bussare, il dolore è un chiavistello in ferro battuto che non si può diroccare. Piuttosto, basterebbe continuare ad annaffiare il giardino per una comprensione totale.

Post Scriptum
Poi arrivarono finalmente, frementi di adrenalina e bava che gli colava dalla bocca. Arrivarono con le loro mani sudate e le loro strette mortali. Arrivarono tutti, puntuali, con i loro baci appiccicosi e le loro facce così incapaci di simulare una sofferenza che in ogni caso non li riguardava. Timbravano il cartellino e scappavano via come topi in cerca di una fogna.

2 commenti:

Asha Sysley ha detto...

Non ho fatto mai presenza. Qualora non ne sentissi internamente l'importanza. Non sono mai arrivata all'altare di una chiesa, ma chino la testa fuori, in rispetto. Non credo di aver mai parlato in quei momenti, abbracciato qualcuno, precogitato discorsi devianti.
Perchè non c'è nulla e nessuno che può comprendere quello che è dentro l'altra persona. E se l'altra persona ha bisogno di te, ti viene a cercare e ti si butta fra le braccia, perchè ne ha bisogno. Il rispetto a volte è anche silenzio e distacco. Ma un silenzio parlante e interrompibile in qualunque attimo.

Non voglio far altro che vederti dormire, col pacchetto di sigarette sul comodino, i boxer con le righe dei tuoi mille pensieri e l'aria di chi ha già letto un finale che verrà recitato prossimamente.

Sono qui, alla finestra. Come sempre. Basterà uno sguardo e tornerò.

Anonimo ha detto...

Non esiste una vita senza dolore e se esistesse sarebbe forse un esistenza ad effetto placebo,perchè l'uomo è nato per sbattersi a cercare di costruirsi una vita che abbia un senso, che poi dipende da che senso uno gli vuole dare alla vita, se tanto poi si muore.
E muoriamo tutti...questa è l'unica certezza.

F.